maria, angelina e rosalia di girolamo

martedì 11 dicembre 2012

qualcuno era comunista-giorgio gaber





Uh? No, non è vero, io non ho niente da rimproverarmi. Voglio dire non mi sembra di aver fatto delle cose gravi.
La mia vita? Una vita normale. Non ho mai rubato, neanche in casa da piccolo, non ho ammazzato nessuno figuriamoci, qualche atto impuro ma è normale no?
Lavoro, la famiglia, pago le tasse. Non mi sembra di avere delle colpe, non vado neanche a caccia.
Uh? Ah, voi parlavate di prima. Ah ma prima, ma prima mi sono comportato come tutti.
Come mi vestivo? Mi vestivo, mi vestivo come ora… beh non proprio come ora, un po’ più… sì jeans, maglione, l’eskimo. Perché, non va bene? Era comodo.
Cosa cantavo? Questa poi, volete sapere cosa contavo. Ma sì certo, anche canzoni popolari, sì…"Ciao bella ciao". Devo parlar più forte? Sì, "Ciao, bella, ciao" l’ho cantata d’accordo e anche l’Internazionale, però in coro eh, in coro.
Sì, quello sì, lo ammetto, sì, ci sono andato, sì, li ho visto anch’io gli intillimanni, però non ho pianto.
Come? Se in camera ho delle foto? Che discorsi, certo, le foto dei miei genitori, mia moglie, mia…
Manifesti? Non mi pare. Forse uno, piccolo però, piccolino: "Che Ghevara". Ma che cos’è un processo questo qui?
No, no, no, io quello no, il pugno non l’ho mai fatto, il pugno no, mai. Beh insomma una volta ma… un pugnettino rapido proprio…
Come? Se ero comunista? Eh. Mi piacciono le domande dirette. Volete sapere se ero comunista? No, no finalmente perché adesso non ne parla più nessuno, tutti fanno finta di niente e invece è giusto chiarirle queste cose, una volta per tutte, ohhh.


Se ero comunista? Mah? In che senso? No voglio dire…


qualcuno era comunista perché era nato in Emilia.
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no.
Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il "Paradiso Terrestre".
Qualcuno era comunista perché si sentiva solo.
Qualcuno era comunista perché aveva avuto un’educazione troppo cattolica.
Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche… lo esigevano tutti.
Qualcuno era comunista perché: "La storia è dalla nostra parte!".
Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto.
Qualcuno era comunista perché prima era fascista.
Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano ma lontano.
Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.
Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo.
Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari.
Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio.
Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio.
Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio.
Qualcuno era comunista perché la borghesia - il proletariato - la lotta di classe. Facile no?
Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopo domani sicuramente…
Qualcuno era comunista perché: "Viva Marx, viva Lienin, Viva Mao Zetung".
Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre.
Qualcuno era comunista perché guardava sempre RAI TRE.
Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.
Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto.
Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.
Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il "materialismo dialettico" per il "Vangelo secondo Lienin".
Qualcuno era comunista perché era convinto d’avere dietro di sé la classe operaia.
Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri.
Qualcuno era comunista perché c’era il grande Partito Comunista.
Qualcuno era comunista nonostante ci fosse il grande Partito Comunista.
Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio.
Qualcuno era comunista perché abbiamo il peggiore Partito Socialista d’Europa.
Qualcuno era comunista perché lo Stato peggio che da noi solo l’Uganda.
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi viscidi e ruffiani.
Qualcuno era comunista perché piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera.
Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista.
Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.
Qualcuno credeva di essere comunista e forse era qualcos’altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana.
Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.


Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani "ipotetici".


E ora? Anche ora ci si sente come in due, da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si era rattrappito.


Due miserie in un corpo solo.


dal web

lunedì 10 dicembre 2012

a scricciola che si mette a sorridere



avrà trovato enzo e stanno da qualche parte in giro su una guzzi rossa...

vi verrò a prendere





Vi verrò a prendere
Perché mi volete morto.
Mi avete tolto il lavoro
La salute
La gioia
E neppure mi conoscete.
Volete artigliare tutto
Lo dite con la vostra grammatica imprecisa
Lo capisco dalla vostra logica micidiale.
Mi avete mantenuto ignorante
Prosciugandomi le parole
In cambio di un lavoro suicida.
Mi avete costretto a mantenere voi
E le donne della vostra razza.
Ho dovuto comprarvi la fabbrica
Le scuole, gli ospedali
Gli stadi, le case, le banche
E voi li avete smontati pezzo a pezzo
Lasciandomi la strada per urlare elemosine.
Umiliate la mia donna, i miei figli
Costretti a vivere all’inferno
In cambio di un paradiso straccione e da bordello.
Avete addestrato all’odio altri me stesso
Mandandoli in piazza a darmi la caccia
E tenendo le vostre facce dietro le finestre.
Alimentate terrore, ansia, incubi del peggio a venire
Finché  non mi convinco che senza non posso vivere.
Siete il mio cancro quotidiano
Il veleno del mio cielo
Tutto col mio permesso rassegnato.
Per questo e tanto altro ancora
Vi verrò a prendere
Con mani, denti e pallottole
E la mia incivile giustizia.
Vi verrò a prendere scordandomi Gandhi
Perché so che solo da morti non fate male
E vi ucciderò anche nel mio ricordo
Sputando sulle vostre tombe
E voltando le spalle a qualsiasi pietà
Vi verrà di chiedere.


baldo dodicidicembreduemiladodici

storia di isabella




Storia di Isabella


Le 4 del mattino hanno sapore di vestaglia e dentifricio.
Le mani accarezzano colazioni per otto occhi addormentati.
Poi le tue gambe già fuori a correre
Il bar Kelly aspetta
E nessuno ti chiede da che metro sei scesa
Se tuo marito ha lavoro
Quanti giocattoli mancano ai tuoi figli.
Non scoprono dentro il cappuccino
Il sapore del tuo pane e dignità.
Faith lo sa che stai male
E tu le insegni a fare dolci.
E pensi al tuo uomo
Alle sue grandi braccia disperate
Ai tuoi figli.
Per loro scrivi:
“Una donna il suo gioiello più prezioso non lo indossa,
lo mette al mondo”
e conosci solo la guerra quotidiana
per affitto, luce, scuola
con un cuore che insegue la vita
ma vorrebbe riposare un poco
stancarsi di carezze e sorrisi
ma che vuoi sorridere
quando questo stato di pupazzi
non sa, non vuol sapere che esisti
che sei donna e madre
che raschi la miseria in silenzio
coi tuoi bambini, le loro braccia attorno.
34 anni, a mordere la vita
Parare colpi e indifferenza
Pulita come quel mare davanti la tua casa.
Quel mare che è arrivato ai tuoi piedi
Per baciarli
Mentre il tuo giorno finiva
Seduto su una panchina
11 giorni fa.


baldo 29novembre2012

A Isabella Viola. Morta di fatica. A 34 anni. Questo è osceno…

Grazie a Enrico Fierro, che ne ha scritto sul fatto quotidiano il 29 novembre 2012.

mercoledì 17 ottobre 2012

amanda todd, quindici anni.





...non ho nessuno
       ho bisogno di qualcuno...





Ninna Nanna -  Tsimshian




la bambina coglierà rose selvatiche.
é nata per questo.

la bambina scaverà con le dita riso selvatico.
è nata per questo.

in primavera raccoglierà la linfa resinosa dei pini.
coglierà fragole e mirtilli.
è nata per questo.

coglierà saponaria e sambuchi.
coglierà rose selvatiche.
è nata per questo.



Inserita da Knee il 14-Sep-'07









judy collins canta brel,per amanda...e le altre.

martedì 16 ottobre 2012

5 canzoni per malala yousafzai


Adottate Malala

10 / 10 / 2012 |
Modesta preghiera agli studenti, ai professori, ai presidi d’Italia. Adottate Malala Yousafzai! Per un giorno parlate di lei a scuola, dividetevi se necessario, ma rendetele l’onore che merita.
Malala è una ragazza pakistana di 14 anni ferita alla testa e al collo. L’hanno seguita, si sono accertati che fosse lei e hanno sparato, per ucciderla.
“Dateci penne per scrivere, prima che qualcuno metta armi nelle nostre mani”, annotava nel suo diario. Ma il diritto allo studio fuori dalle Madrasse, il diritto per le ragazze pakistane di andare a scuola è considerato un crimine “osceno” dai Talebani.
“Diffonde idee laiche, ci attacca, è una fan di Obama”. Per questo l’hanno condannata a morte. Per questo un killer l’ha seguita e ha sparato. Da anni Malala aspettava quel killer, ma ha continuato a difendere il futuro, il suo e anche il nostro.
Corradino Mineo, direttore di RaiNews



lunedì 15 ottobre 2012

quelli che...beppe viola - enzo jannacci


ricordando beppe viola, 30 anni dopo...


lunedì 12 dicembre 2011

La palestra può aspettare





Sono già le undici e un quarto, ma ho fatto tutto, o quasi: letti (tranne il mio), messo in ordine, mi sono pesata (aumentata di mezzo chilo), fatta la doccia, incremata, vestita. In onore del mio nuovo amico (il mezzo chilo) mi sono addirittura messa la gonna, così che anche lui si può far notare in giro.
La palestra per oggi può aspettare, ci sono cose più importanti da fare. Come sputtanare un amico, per esempio. Amico, poi, per dire.
Dopo il mio caffé stamattina ho sentito Serena che mi fa, “Hai visto il Corriere?” Io non lo leggo proprio, il Corriere e lei neanche. Ma qualcuno le ha detto dell’articolo uscito oggi: intervista al grande Enzo Jannacci, che parla del libro (coccodrillo?) appena uscito di suo figlio, e della sua genialità. E dei suoi amici, appunto. Quelli andati e quelli ancora qui. Delle sue canzoni, e tra le altre cose, del suo regalo a Mario Monicelli, che invece l’Enzo il regalo lo ha ricevuto lui quella volta lì. Da mio padre.
Apro una lunga parentesi. Erano gli anni del dopoguerra. Milano era in parte macerie e in parte ancora periferia, soprattutto in zona Undici, dove c’è la via Lomellina che incrocia la via Sismondi e in fondo a sinistra c’è anche Piazza Adigrat.
Mio padre, figlio di marconista, viveva nella suddetta piazza Adigrat con sua madre e sua sorella perchè la zona Undici è la più vicina all’aeroporto di Linate. Come la sua, altre famiglie della zona avevano padri aviatori, marconisti e via andare, a cui erano appunto stati dati appartamenti. Una di queste era la famiglia Jannacci, perché lui era aviatore, collega di mio nonno, tra l’altro.
Avevano tre o quattro anni quando Enzo e mio padre si sono conosciuti, e dall’ora non si sono mai mollati: ginocchie sbucciate insieme, partite di calcio improvvisate, fidanzate, poi mogli, figli, vacanze insieme. E lavoro, tanto. Dettato da una sintonia rara, squilibrata e genialoide. Il dottor Jannacci si pagava l’università cantando nei locali dell’adiacente Ortica, posto di operai che lavoravano all’Innocenti.
Sono venute fuori cose che ancora adesso sono d’avanguardia. Mio padre è stato nel frattempo preso in Rai, e dunque in teoria non poteva firmare niente che non fosse proprietà Rai. Ma invece firmava: ha firmato Quelli che, ha firmato Vincenzina, ha firmato anche i dialoghi di Romanzo Popolare, film di Monicelli, appunto. Ha firmato tanti lavori di Cochi e Renato. Ha firmato libri.
Ha anche scritto uno spettacolo teatrale, a quattro mani, come tutte le cose fatte fuori Rai. Mentre si disegnava la locandina, mio padre venne ricoverato in ospedale, per via della pressione alta. Dalla sua camera di ospedale, ricevette la locandina freca fresca di stampa che annunciava senza fraintendimenti: testi di Enzo Jannacci.
Contro tutta la sua cartella medica, scappa dall’ospedale, e in mezz’ora è a casa. “Cosa ci fai qui?”, dice mia madre sbalordita. La pressione a questo punto credo fosse ai massimi storici.
Mio padre prende il telefono grigio in sala, quello sulla cassapanca di fronte alla finestra, e manda un bel telegramma, che a quei tempi si faceva così.
Finisce così la loro amicizia. I loro trent’anni di telefonate quotidiane, di nottate passate da Enzo sul divano di pelle marrone in sala a dormire, quando non c’aveva voglia di andare a casa, le estati tra Ospdaletti e Bordighera, le nottate a bere, scrivere e soprattutto ridere. Le collaborazioni, tutto.
Passò qualche anno prima che Enzo prendesse il coraggio per citofonare Viola in Via Sismondi trentasei, quarto piano. Arrivò in sala, papà aprì la porta e ci fu un attimo di imbarazzo prima dei saluti.
Poi però si ritrovarono ancora una volta nei ruoli di sempre. A mio padre piaceva parlare da in piedi, gesticolando e fumando. Enzo invece si sedeva, che apparentemente sembrava anche più pacato. Sfarfugliava, come sempre.
Prima di andarsene, apre la porta dell’ascensore, che arriva direttamente in sala, si volta verso mio padre per salutarlo e gli fa “Hai visto come vende bene Quelli che?” Papà aveva visto, ma solo che anche quella volta, quella di Quelli che, Enzo si era dimenticato d dire alla SIAE che non l’aveva scritta da solo.
Mentre l’ascensore scende, mio padre si volta verso mia madre e dice, :”Ma hai visto che faccia di tolla? MI viene anche a dire che vende bene?”.
Tre giorni dopo mio padre muore, e di Quelli che, e di Vincenzina e di tutto il resto non se ne fa più niente: nessuno chiama la SIAE per dire guardi che forse c’è stata una distrazione.
Gli anni passano per tutti, anche per il dottor Jannacci, che vuole tanto che lo chiamiamo zio, ma che ancora non ha capito chi sono io e chi è Renata, per dire. Sono passati anche gli anni che noi eravamo piccole, orfani di padre, e che lui abitava in via Sismondi con la sua mamma, la Sciura Mariuccia, che ogni volta che mi incontrava dal panettiere diceva: “Me racumandi, vorighe ben al mi Enzo, Vorighe ben!”, non gli è mai venuto in mente di salire per sapere come stavamo noi, o la Franchina, anche lei conosciuta in Piazza Adigrat nel ’45.
Ma, insomma, anche lui aveva il suo da fare, per l’amore d’un dio. Non ce lo siamo mai aspettate e non c’è neanche mai particolarmente mancato.
Lo avevo chiamato personalmente un paio di volte: una volta per chiedergli consigli su un’amica che mi aveva detto che aveva cominciato a bucarsi. Volevo chiedergli consigli medici, che mi ha dato al telefono, molto gentilmente. Un’altra volta quando Dan viveva a Milano e era stato poco bene, e io lo avevo portato nel suo studio medico. Anche quella volta lì, gentile, dipsonibile, carinissimo. Baci abbracci, come sta la mamma, dille che uno di questi giorni passo. Robe di normale amministrazione.
Una decina di anni fa Baldini e Castoldi decide di riproporre alcuni scritti di mio padre. Tempo tre giorni dall’uscita del libro, il telefono squilla in via Sismondi trentasei, casa Viola, la mattina presto. Era l’avvocato del dottor Jannacci, che voleva ricordare alla signora Viola che non tutti i pezzi pubblicati erano stati scritti a due mani.
Mia madre, che quando ha qualcosa da dire piuttosto si strozza, ma la deve dire, dice all’avvocato (che poi era il cognato del dottor Jannacci), di ricordare al suo cliente che se è per quello, ci sono anni di diritti che noi non abbiamo mai visto, e che il suo cliente ha qualcosa da dirle, sa benissimo dove trovarla: corso Sempione, terzo piano Rai, redazione sportiva, e che lei è lì dalla mattina alla sera a farsi il culo.
Cornetta buttata giù in malomodo da mia madre, con conseguente visita in Rai del dottor Jannacci con la sua coda tra le gambe dicendo dai cosa te la prendi non è stata un’idea mia farti chiamare, figurati se io…
Fine della trasmissione. Chiusa parentesi.
Stamattina Serena mi chiede se ho letto il Corriere, che io non leggo e neanche lei, ma qualcuno le ha detto di quest’articolo uscito su Enzo Jannacci, in cui, dice lui, di aver scritto Vincenzina e di averla data come regalo a Monicelli.
Ho sentito le ossa di mio padre fibrillare da qui, che sono ben lontana dal cimitero di Lambrate, a Milano. Perché ovviamente non è neanche una questione di soldi, altrimenti avremmo già fatto il da farsi. È proprio una questione morale.
Adesso che la pressione alta è venuta anche a me, passo e chiudo, che tanto sono storie vecchie, anzi antiche.



Tratta da: pensierieparole.blogspot.it  di marina viola, figlia di beppe

venerdì 14 settembre 2012

franco bardi - cgil - sulla torre alcoa





...stanotte con Rino Barca non abbiamo chiuso occhio: ci siamo raccontati a vicenda le prime nostre notti in fabbrica, gli entusiasmi e le delusioni, ma adesso è tutto diverso. Mio figlio, sedicenne mi chiama a ogni ora, mi dice di scendere, ma dove vado? Cerco di difendere un lavoro di merda, facendo anche l'impossibile, ma queste non sono persone, sono automi incapaci di pensare, non hanno cuore. Ci stanno togliendo tutto, non solo il lavoro ma anche quel briciolo di dignità che avevamo; ci sorridono prima di pugnalarci, com'è accaduto mercoledì pomeriggio. E' arrivato il direttore e gli ho chiesto perchè fosse vestito così elegantemente; mi ha risposto che in Brasile ci si veste con l'abito da festa per il matrimonio e per incontrare le autorità. E io gli ho detto, ma perchè dovevi incontrare le autorità, cosa dovevi comunicare loro. E lui mi ha detto, lo stesso che comunico a voi. Questo è il programma di chiusura. Lo ha detto sorridendo.
Lui sperava che compissimo un atto scellerato, che impedissimo alla dirigenza di uscire o entrare, ma noi non li abbiamo neppure toccati, proprio perchè se lo aspettavano. Si rendono conto benissimo cosa stanno facendo: ci stanno togliendo la vita. E se sperano che abbia paura di loro si sbagliano: ho un nome, un volto e un numero di matricola: mi licenzino se ne hanno il coraggio, e a quel punto vedremo chi è uomo e chi no.
Questa vertenza non sta spegnendo solo le speranze di tante famiglie, sta facendo marcire le coscienze. Io continuerò a stare qui sino a quando non verranno modificati i piani o intervenga Palazzo Chigi, ma scenderò con le mie gambe, da uomo, e voglio vedere se quelli hanno il coraggio di guardarmi...


testimonianza raccolta da Giuseppe Centore e pubblicata su La Nuova Sardegna il 14 settembre 2012

giovedì 13 settembre 2012

dedicato alla lotta di tutti gli operai sardi





Amou daquela vez como se fosse a última
Beijou sua mulher como se fosse a última
E cada filho seu como se fosse o único
E atravessou a rua com seu passo tímido

Subiu a construção como se fosse máquina
Ergueu no patamar quatro paredes sólidas
Tijolo com tijolo num desenho mágico
Seus olhos embotados de cimento e lágrima

Sentou pra descansar como se fosse sábado
Comeu feijão com arroz como se fosse um príncipe
Bebeu e soluçou como se fosse um náufrago
Dançou e gargalhou como se ouvisse música
E tropeçou no céu como se fosse um bêbado

E flutuou no ar como se fosse um pássaro
E se acabou no chão feito um pacote flácido
Agonizou no meio do passeio público
Morreu na contramão atrapalhando o tráfego

Amou daquela vez como se fosse o último
Beijou sua mulher como se fosse a única
E cada filho como se fosse o pródigo
E atravessou a rua com seu passo bêbado

Subiu a construção como se fosse sólido
Ergueu no patamar quatro paredes mágicas
Tijolo com tijolo num desenho lógico
Seus olhos embotados de cimento e tráfego

Sentou pra descansar como se fosse um príncipe
Comeu feijão com arroz como se fosse o máximo
Bebeu e soluçou como se fosse máquina
Dançou e gargalhou como se fosse o próximo
E tropeçou no céu como se ouvisse música

E flutuou no ar como se fosse sábado
E se acabou no chão feito um pacote tímido
Agonizou no meio do passeio náufrago
Morreu na contramão atrapalhando o público

Amou daquela vez como se fosse máquina
Beijou sua mulher como se fosse lógico
Ergueu no patamar quatro paredes flácidas
Sentou pra descansar como se fosse um pássaro
E flutuou no ar como se fosse um príncipe
E se acabou no chão feito um pacote bêbado
Morreu na contra-mão atrapalhando o sábado





COSTRUZIONE

Quella volta amò come se fosse l’ultima 
Baciò sua moglie come se fosse l’ultima 
Ed ogni figlio suo come se fosse l’unico 
E attraversò la via col suo passo timido 

Salì nella costruzione come fosse una macchina 
Eresse nella piattaforma quattro pareti solide 
Mattone su mattone in un disegno magico 
I suoi occhi abbottati di cemento e lacrime 

Si sedette per riposare come se fosse sabato 
Mangiò fagioli e riso come se fosse un principe 
Bevve e singhiozzò come se fosse un naufrago 
Ballò e canticchiò come se ascoltasse musica 
Ed inciampò nel cielo come se fosse ubriaco 

E fluttuò in aria come se fosse un passero 
E finì a terra come un sacco flaccido 
Agonizzò in mezzo al marciapiede pubblico 
Morì in contromano disturbando il traffico 

Quella volta amò come se fosse l’ultimo 
Baciò sua moglie come se fosse l’unica 
E ogni figlio suo come se fosse il prodigo 
E attraversò la via col suo passo ubriaco 

Salì nella costruzione come se fosse solido 
Eresse nella piattaforma quattro pareti magiche 
Mattone su mattone in un disegno logico 
I suoi occhi abbottati di cemento e traffico 

Sedette per riposare come se fosse un principe 
Mangiò fagioli e riso come se fosse il massimo 
Bevve e singhiozzò come se fosse una macchina 
Ballò e canticchiò come se fosse il prossimo

Ed inciampò nel cielo come se ascoltasse musica 
E fluttuò in aria come se fosse sabato 
E finì a terra come un pacco timido 
Agonizzò in mezzo al marciapiede naufrago 
Morì in contromano disturbando il pubblico 

Quella volta amò come fosse una macchina 
Baciò sua moglie come fosse logico 
Eresse nella piattaforma quattro pareti flaccide 
Si sedette riposando come un passero 
E fluttuò in aria come un principe 
E finì a terra come un pacco ubriaco 
Morì in contromano disturbando il sabato


Da: canzonicontrolaguerra




giovedì 6 settembre 2012

boris vian - le desèrteur






 

 

Monsieur le Président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir
Monsieur le Président
Je ne veux pas la faire
Je ne suis pas sur terre
Pour tuer des pauvres gens
C'est pas pour vous fâcher
Il faut que je vous dise
Ma décision est prise
Je m'en vais déserter

Depuis que je suis né
J'ai vu mourir mon père
J'ai vu partir mes frères
Et pleurer mes enfants
Ma mère a tant souffert
Elle est dedans sa tombe
Et se moque des bombes
Et se moque des vers
Quand j'étais prisonnier
On m'a volé ma femme
On m'a volé mon âme
Et tout mon cher passé
Demain de bon matin
Je fermerai ma porte
Au nez des années mortes
J'irai sur les chemins

Je mendierai ma vie
Sur les routes de France
De Bretagne en Provence
Et je dirai aux gens:
Refusez d'obéir
Refusez de la faire
N'allez pas à la guerre
Refusez de partir
S'il faut donner son sang
Allez donner le vôtre
Vous êtes bon apôtre
Monsieur le Président
Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je n'aurai pas d'armes
Et qu'ils pourront tirer

 

 

 

 

 

 

Il disertore

10 febbraio 2003 - Boris Vian
In piena facoltà 
egregio presidente 
le scrivo la presente 
che spero leggerà.
La cartolina qui 
mi dice terra terra 
di andare a far la guerra 
quest'altro lunedì
Ma io non sono qui 
egregio presidente 
per ammazzar la gente 
più o meno come me
Io non ce l'ho con lei 
sia detto per inciso 
ma sento che ho deciso 
e che diserterò.
Ho avuto solo guai 
da quando sono nato 
i figli che ho allevato 
han pianto insieme a me.
Mia mamma e mio papà 
ormai son sotto terra 
e a loro della guerra 
non gliene fregherà.
Quand'ero in prigionia 
qualcuno mi ha rubato 
mia moglie e il mio passato 
la mia migliore età.
Domani mi alzerò 
e chiuderò la porta 
sulla stagione morta 
e mi incamminerò.
Vivrò di carità 
sulle strade di Spagna 
di Francia e di Bretagna 
e a tutti griderò.
Di non partire più 
e di non obbedire 
per andare a morire 
per non importa chi.
Per cui se servirà 
del sangue ad ogni costo 
andate a dare il vostro 
se vi divertirà.
E dica pure ai suoi 
se vengono a cercarmi 
che possono spararmi 
io armi non ne ho. 
Note:
Originale "Le deserteur" testo di Boris Vian - musica di Boris Vian e Harold Berg, 1956 
Traduzione italiana Giorgio Calabrese - Arrangiamento Ivano Fossati 
Incisa in Lindbergh (Lettere da sopra la pioggia) di Ivano Fossati, 1992
La canzone è stata scritta ai tempi della guerra di Indocina ma in breve è divenuta un manifesto contro la presenza coloniale francese nell'Algeria che lottava per la propria libertà. 
In Italia è stata ripresa per la prima volta da Margot, Margherita Galante Garrone (figlia di Alessandro Galante Garrone, moglie di Sergio Liberovici e madre di Andrea) nel periodo dei Cantacronache (1958/1960), poi è rimbalzata negli Stati Uniti incisa da Peter, Paul and Mary durante i moti di Berkeley, quindi ci sono state 4 traduzioni italiane, a cura di Paolo Villaggio, Luigi Tenco, Giorgio Caproni e Giorgio Calabrese. Ornella Vanoni l'ha inserita nella scaletta del suo tour nel 1971, ma la prima incisione italiana è stata curata da Ivano Fossati nel 1992, riprendendo la traduzione di Calabrese. 
Moulodji è stato l'interprete francese ed ha dovuto subire un esilio di circa 10 anni dal mondo della canzone francese, mentre Boris Vian, che pure morirà pochi anni dopo, spesso dovette esibirsi o scrivere sotto pseudonimo, tanta era stata la reazione delle destre francesi, De Gaulle in testa.
Fonte: peacelink

Sergio Toppi, l'artigiano del fumetto che non voleva essere chiamato 'artista'




26-08-2012 / CULT / NAZARENO GIUSTI
MILANO, 26 agosto - È un anno funesto questo 2012 per il mondo del fumetto: dopo la scomparsa a marzo di Moebius e di Joe Kubert due settimane fa, martedì è morto, nella sua Milano, Sergio Toppi. La cerimonia funebre si è tenuta giovedì mattina alla chiesa di San Lorenzo, presso la Cascina Monluè.
Era malato il vecchio Sergio, però ha continuato, sino alla fine, a lavorare. Come faceva da oltre mezzo secolo.
Se ne va un genio, lo diciamo senza giri di parole, non per sparare là una frase di circostanza ma perchè lo abbiamo sempre creduto. 
In molti hanno versato lacrime da coccodrillo in realtà buona parte del mondo del fumetto, in questi anni lo ha snobbato. Per fortuna ci sono state alcune gallerie, “Il Grifo” ma, sopratutto, “Il Giornalino” (di cui Toppi era da decenni una delle colonne portanti) e il Museo del Fumetto diretto da Angelo Nencetti che nel 2010 riuscirono a realizzare “Sulle rotte dell'immaginario” collana di 12 volumi che raccoglievano la gran parte dei lavori realizzati da Toppi.
Un tributo doveroso a colui che, insieme a pochi altri, ha veramente contribuito a innovare il fumetto attraverso una rivoluzione dell'impostazione della pagina con un segno, riconoscibilissimo, fatto da una ragnatela di tratti.
Era un signore Sergio Toppi. Un gentiluomo di “antica cortesia” che dava sempre del lei. Timido e riservato era un omino piccolo con grandi occhiali, un po' datati, che nascondevano due occhi curiosi.
In Francia, dove era pubblicato da Mosquito (che aveva dato alle stampe  "Sharaz-de" splendida versione de "Le Mille e una notte" che aveva riscosso uno strepitoso successo) durante una mostra a Parigi, nel 2003, il quotidiano “Le Figaro” lo paragonò a Klimt e Schiele (artisti che ammirava profondamente, come si capisce bene guardando certe sue opere) e con cui poteva "dialogare" tranquillamente.
Non voleva, però, essere chiamato artista: “lo detesto: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Non posso fare quello che mi passa la testa al mattino. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo”.
Si riteneva, però, un artigiano, un onesto professionista. “Il professionista deve adattarsi a quello che gli viene richiesto, entro certi limiti. Può anche dire di no. Se accetta una cosa è tenuto a farla nel modo migliore. Come in tutti i lavori, ci sono delle cose che piacciono e altre meno, però bisogna cercare di adeguarsi alle richieste della clientela e dell'editore. Chi fa questo lavoro lo fa perché gli piace, si presume che anche dal solo fatto di disegnare possa ricavare piacere. Quando c'è stata la possibilità di lavorare a modo nostro l'abbiamo fatto, come nel caso di un'organizzazione particolare della pagina. Quando non è possibile, non lo si fa. Questa è la regola delle cose. Il discorso che facevo prima, per chi lavora professionalmente ci sono delle situazioni in cui bisogna adattarsi”.
Aveva iniziato a studiare medicina poi si era accorto che quella non era la sua strada. Aveva iniziato a lavorare come illustratore per la Utet e per le pubblicità animate dei fratelli Pagot. Al fumetto arrivò nel 1966 sulle pagine del glorioso“Corriere dei Piccoli” dove diede vita a "Mago Zurlì", su testi di Carlo Triberti, ispirato al personaggio interpretato sugli schermi televisivi dal presentatore Cino Tortorella. Poi sulle illustrò le sceneggiature di Milo Milani che raccontavano a fumetti fatti di cronaca, eventi storici, o adattamenti di grandi romanzi)
Lo stesso tipo di storie furono affrontate su “Il Messaggero dei ragazzi” dove, padreGiovanni.Colasanti (direttore del periodico), gli diede maggiore libertà. Lì cominciò veramente a nascere il suo stile inconfondibile e iniziò a sperimentare un nuovo modo di impostare la pagina.
Poi "Sgt. Kirk", la collaborazione a "La storia d'Italia a fumetti" di Enzo Biagi ma, sopratutto, negli anni ottanta straordinari racconti brevi interamente suoi per le riviste "Orient Express", "Alter Alter", "Corto Maltese", "Linus". Autentiche perle.
Ricordava malvolentieri gli anni della guerra. “Io sono del '32 e la guerra l'ho subita in pieno. Ho vissuto sotto i bombardamenti su Milano. Poi dovemmo sfollare in Valdossola dove ci avevano detto che avremmo trovato un po' di tranquillità. Invece lì ebbi modo di assistere alle sparatorie tra partigiani e nazifascisti. Conobbi per la prima volta la paura di morire, furono anni di sofferenza e di fame”.
Uno dei suoi ricordi più vivi, e più tristi, del primo dopoguerra era il buio per le strade in cui mancava la luce corrente. In quel buio, probabilmente, iniziarono a nascere le sue immagini.
Il suo primo approccio con il fumetto avvenne a una bancarella, quasi per caso. Sfogliando un numero di "Asso di Picche" rimase colpito dalla qualità dei disegni di due autori in particolare, Hugo Pratt e Dino Battaglia. “Ero giovane e non avevo una grande cultura fumettistica. Qualche volta mi capitava di leggere Flash Gordon, ma non ho mai avuto una passione viscerale per i fumetti, così come a tutt'oggi devo dire che non ne leggo” confessava.
Leggeva invece molta letteratura: Rigoni Stern, Faulkner, Hemingway, Tomasi di Lampedusa. Ma sopratutto Buzzati di cui amava i racconti brevi.
“Me ne colpì uno, in particolare: il famoso “Il Mantello” dove Buzzati per descrivere un tetro pomeriggio invernale usa due parole: “Volavano cornacchie”. Due semplici parole con cui si dava il senso di un atmosfera cupa e inquietante che anticipavano ciò che sarebbe accaduto. Una sapienza letteraria straordinaria sopratutto sul piano della sintesi”.
Nel cinema amava KurosawaGermi, Olmi e Monicelli. Lo aveva affascinato la visione di “Edipo re” di Pasolini per l'atmosfera senza tempo che il poeta era riuscito a trasmettere.
“In quell'epoca- spiegò nel 2009 a un convegno a Bologna in occasione della mostra"Toppi. Il segno della Storia"- imperversavano i peplum, film con una classicità fasulla, tratta da un certo semplicismo che hanno gli americani per quanto riguarda la nostra storia antica. Mi colpì di Pasolini la capacità  di ricreare un clima arcaico, lontanissimo, senza epoca, ricreando un'atmosfera magica. Senza stereotipizzare: per esempio: quando Edipo interroa la Sfinge è una specie di mostro informe, un idolo paleo africano”.
Una capacità che riuscirà a riportare nei suoi fumetti. La capacità evocativa e d'atmosfera di Toppi era, infatti, unica.  Un suo personaggio sia esso un cacciatore dell'Alaska, un guerriero africano, uno stregone atzeco o un cercatore d'oro del Wisconsin suggerisce una serie di considerazioni al lettore che sente la differenza  con gli stessi personaggi disegnati da altri autori.
“Se devo disegnare un fuorilegge australiano non gli farò mai un paio di stivali lucidi perchè per la vita che fa avrà scarpacce magari più grandi, coperte di polvere piene di macchie che danno l'idea di un individuo che cammina nella polvere e nell'acqua. Il cappello sarà sbeccato, sporco”.
Era molto importante per lui la documentazione , la ricerca anche se poi, alla fine, reinterpretava il tutto, rimanendo però fedele alla realtà. “Non si crea nulla dal nulla”diceva.
“Per esempio non è detto che una storia del medioevo  debba essere pignola, uno deve arrivare a crearsi un suo medioevo, completamente inventato, ma credibile. Vestiti, armature, architetture è importante conoscerle per rielaborarle. Ora, a questo si arriva solo guardandosi molto intorno. Uno può fare anche una commistione di generi, però prima bisogna aver capito bene le cose”.
Si definiva un “borghese”. Dal suo tavolo da disegno della grigia Milano per più di mezzo secolo aveva viaggiato nel mondo e nel tempo.
“Tutto quello che esula dall'alzarsi la mattina, farsi la barba e bersi il caffè è avventura. Quella serie di ambienti, di situazioni, di atmosfere di periodi che solleticano la nostra fantasia. Magari ad una persona come potrei essere io, il classico borghese, piace pensare a delle avventure nei posti esotici. L'avventura è questo. Quindi noi che abbiamo la possibilità di ricreare delle storie lo facciamo con piacere. Anche il lavoro è avventura”.
Però, aveva fatto anche viaggi reali, nei luoghi che lo affascinavano.
“I posti che mi premeva di vedere, li ho visti. Il Centro America me lo sono visitato, non dico benissimo, perché è grande, ma quel che ho visto mi ha soddisfatto moltissimo, Il Messico. Sono posti completamente diversi. Poi mi ha interessato vedere il New England. Voi forse non l'avete sentito nominare, ma per quelli della nostra generazione, specialmente per i disegnatori come me, c'era un libro di culto: Passaggio a Nord Ovest, che si svolgeva in una parte dell'America Orientale, nel New England. Ho sempre desiderato vedere due o tre posti che vi erano descritti. Quando l'ho letto da ragazzo era il mio libro dei sogni. Una storia ambientata nel '700, con guerre indiane, francesi e inglesi, foreste e laghi. Quando l'ho visto è stata una grande emozione. Pratt ha ambientato lì tutti i suoi racconti. Era una strana epoca dove gli europei combattevano in foreste incredibili con il tricorno e la parrucca bianca insieme agli indiani rapati con il ciuffetto in testa”.
Il suo non era certo un segno "bonelliano". Nonostante questo, però, per l'allora Cepim realizzò due splendidi episodi della collana “Un uomo, un'avventura”:“L’uomo del Nilo” (le gesta di Gordon Pascià nella guerra contro il Mahdi sudanese) e “L’uomo delle paludi” (sui seminoles della Florida) oltre a realizzare due avventure di Nick Raider e il mitico numero 11 di Julia.
Sergio Bonelli, era un suo grande ammiratore. Nella presentazione di una rassegna di tavole toppiane alla galleria milanese L’Agrifoglio, affermò: “Lo confesso, io a lui sono anche debitore di una specie di passaporto internazionale. Quando, da perfetto sconosciuto quale sono, grazie al cielo, al di fuori del mio piccolo mondo fumettistico italiano, mi presento a qualche manifestazione dedicata ai comics (a New York come a Buenos Aires, a Barcellona come ad Angoulême), mi basta una semplice dichiarazione per suscitare l’interesse e la stima dei miei interlocutori: “Mi chiamo Sergio Bonelli, pubblico fumetti in Italia e sono l’editore di Sergio Toppi”.
Altro suo grande estimatore era Oreste del Buono, che di lui diceva: “Dalle sue tavole così incise e così bulinate, dalla ricchezza traboccante delle sue storie misteriose e tragiche ci viene costantemente il conforto che può esistere un uomo così responsabile, così pronto a rispettare il suo impegno. Come una religione. Il suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai di d'imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l'incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri”.
Lo sapeva bene Sergio e così ha fatto, sino alla fine. Con l'umiltà e la modestia che è dei grandi.