maria, angelina e rosalia di girolamo

venerdì 14 settembre 2012

franco bardi - cgil - sulla torre alcoa





...stanotte con Rino Barca non abbiamo chiuso occhio: ci siamo raccontati a vicenda le prime nostre notti in fabbrica, gli entusiasmi e le delusioni, ma adesso è tutto diverso. Mio figlio, sedicenne mi chiama a ogni ora, mi dice di scendere, ma dove vado? Cerco di difendere un lavoro di merda, facendo anche l'impossibile, ma queste non sono persone, sono automi incapaci di pensare, non hanno cuore. Ci stanno togliendo tutto, non solo il lavoro ma anche quel briciolo di dignità che avevamo; ci sorridono prima di pugnalarci, com'è accaduto mercoledì pomeriggio. E' arrivato il direttore e gli ho chiesto perchè fosse vestito così elegantemente; mi ha risposto che in Brasile ci si veste con l'abito da festa per il matrimonio e per incontrare le autorità. E io gli ho detto, ma perchè dovevi incontrare le autorità, cosa dovevi comunicare loro. E lui mi ha detto, lo stesso che comunico a voi. Questo è il programma di chiusura. Lo ha detto sorridendo.
Lui sperava che compissimo un atto scellerato, che impedissimo alla dirigenza di uscire o entrare, ma noi non li abbiamo neppure toccati, proprio perchè se lo aspettavano. Si rendono conto benissimo cosa stanno facendo: ci stanno togliendo la vita. E se sperano che abbia paura di loro si sbagliano: ho un nome, un volto e un numero di matricola: mi licenzino se ne hanno il coraggio, e a quel punto vedremo chi è uomo e chi no.
Questa vertenza non sta spegnendo solo le speranze di tante famiglie, sta facendo marcire le coscienze. Io continuerò a stare qui sino a quando non verranno modificati i piani o intervenga Palazzo Chigi, ma scenderò con le mie gambe, da uomo, e voglio vedere se quelli hanno il coraggio di guardarmi...


testimonianza raccolta da Giuseppe Centore e pubblicata su La Nuova Sardegna il 14 settembre 2012

giovedì 13 settembre 2012

dedicato alla lotta di tutti gli operai sardi





Amou daquela vez como se fosse a última
Beijou sua mulher como se fosse a última
E cada filho seu como se fosse o único
E atravessou a rua com seu passo tímido

Subiu a construção como se fosse máquina
Ergueu no patamar quatro paredes sólidas
Tijolo com tijolo num desenho mágico
Seus olhos embotados de cimento e lágrima

Sentou pra descansar como se fosse sábado
Comeu feijão com arroz como se fosse um príncipe
Bebeu e soluçou como se fosse um náufrago
Dançou e gargalhou como se ouvisse música
E tropeçou no céu como se fosse um bêbado

E flutuou no ar como se fosse um pássaro
E se acabou no chão feito um pacote flácido
Agonizou no meio do passeio público
Morreu na contramão atrapalhando o tráfego

Amou daquela vez como se fosse o último
Beijou sua mulher como se fosse a única
E cada filho como se fosse o pródigo
E atravessou a rua com seu passo bêbado

Subiu a construção como se fosse sólido
Ergueu no patamar quatro paredes mágicas
Tijolo com tijolo num desenho lógico
Seus olhos embotados de cimento e tráfego

Sentou pra descansar como se fosse um príncipe
Comeu feijão com arroz como se fosse o máximo
Bebeu e soluçou como se fosse máquina
Dançou e gargalhou como se fosse o próximo
E tropeçou no céu como se ouvisse música

E flutuou no ar como se fosse sábado
E se acabou no chão feito um pacote tímido
Agonizou no meio do passeio náufrago
Morreu na contramão atrapalhando o público

Amou daquela vez como se fosse máquina
Beijou sua mulher como se fosse lógico
Ergueu no patamar quatro paredes flácidas
Sentou pra descansar como se fosse um pássaro
E flutuou no ar como se fosse um príncipe
E se acabou no chão feito um pacote bêbado
Morreu na contra-mão atrapalhando o sábado





COSTRUZIONE

Quella volta amò come se fosse l’ultima 
Baciò sua moglie come se fosse l’ultima 
Ed ogni figlio suo come se fosse l’unico 
E attraversò la via col suo passo timido 

Salì nella costruzione come fosse una macchina 
Eresse nella piattaforma quattro pareti solide 
Mattone su mattone in un disegno magico 
I suoi occhi abbottati di cemento e lacrime 

Si sedette per riposare come se fosse sabato 
Mangiò fagioli e riso come se fosse un principe 
Bevve e singhiozzò come se fosse un naufrago 
Ballò e canticchiò come se ascoltasse musica 
Ed inciampò nel cielo come se fosse ubriaco 

E fluttuò in aria come se fosse un passero 
E finì a terra come un sacco flaccido 
Agonizzò in mezzo al marciapiede pubblico 
Morì in contromano disturbando il traffico 

Quella volta amò come se fosse l’ultimo 
Baciò sua moglie come se fosse l’unica 
E ogni figlio suo come se fosse il prodigo 
E attraversò la via col suo passo ubriaco 

Salì nella costruzione come se fosse solido 
Eresse nella piattaforma quattro pareti magiche 
Mattone su mattone in un disegno logico 
I suoi occhi abbottati di cemento e traffico 

Sedette per riposare come se fosse un principe 
Mangiò fagioli e riso come se fosse il massimo 
Bevve e singhiozzò come se fosse una macchina 
Ballò e canticchiò come se fosse il prossimo

Ed inciampò nel cielo come se ascoltasse musica 
E fluttuò in aria come se fosse sabato 
E finì a terra come un pacco timido 
Agonizzò in mezzo al marciapiede naufrago 
Morì in contromano disturbando il pubblico 

Quella volta amò come fosse una macchina 
Baciò sua moglie come fosse logico 
Eresse nella piattaforma quattro pareti flaccide 
Si sedette riposando come un passero 
E fluttuò in aria come un principe 
E finì a terra come un pacco ubriaco 
Morì in contromano disturbando il sabato


Da: canzonicontrolaguerra




giovedì 6 settembre 2012

boris vian - le desèrteur






 

 

Monsieur le Président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir
Monsieur le Président
Je ne veux pas la faire
Je ne suis pas sur terre
Pour tuer des pauvres gens
C'est pas pour vous fâcher
Il faut que je vous dise
Ma décision est prise
Je m'en vais déserter

Depuis que je suis né
J'ai vu mourir mon père
J'ai vu partir mes frères
Et pleurer mes enfants
Ma mère a tant souffert
Elle est dedans sa tombe
Et se moque des bombes
Et se moque des vers
Quand j'étais prisonnier
On m'a volé ma femme
On m'a volé mon âme
Et tout mon cher passé
Demain de bon matin
Je fermerai ma porte
Au nez des années mortes
J'irai sur les chemins

Je mendierai ma vie
Sur les routes de France
De Bretagne en Provence
Et je dirai aux gens:
Refusez d'obéir
Refusez de la faire
N'allez pas à la guerre
Refusez de partir
S'il faut donner son sang
Allez donner le vôtre
Vous êtes bon apôtre
Monsieur le Président
Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je n'aurai pas d'armes
Et qu'ils pourront tirer

 

 

 

 

 

 

Il disertore

10 febbraio 2003 - Boris Vian
In piena facoltà 
egregio presidente 
le scrivo la presente 
che spero leggerà.
La cartolina qui 
mi dice terra terra 
di andare a far la guerra 
quest'altro lunedì
Ma io non sono qui 
egregio presidente 
per ammazzar la gente 
più o meno come me
Io non ce l'ho con lei 
sia detto per inciso 
ma sento che ho deciso 
e che diserterò.
Ho avuto solo guai 
da quando sono nato 
i figli che ho allevato 
han pianto insieme a me.
Mia mamma e mio papà 
ormai son sotto terra 
e a loro della guerra 
non gliene fregherà.
Quand'ero in prigionia 
qualcuno mi ha rubato 
mia moglie e il mio passato 
la mia migliore età.
Domani mi alzerò 
e chiuderò la porta 
sulla stagione morta 
e mi incamminerò.
Vivrò di carità 
sulle strade di Spagna 
di Francia e di Bretagna 
e a tutti griderò.
Di non partire più 
e di non obbedire 
per andare a morire 
per non importa chi.
Per cui se servirà 
del sangue ad ogni costo 
andate a dare il vostro 
se vi divertirà.
E dica pure ai suoi 
se vengono a cercarmi 
che possono spararmi 
io armi non ne ho. 
Note:
Originale "Le deserteur" testo di Boris Vian - musica di Boris Vian e Harold Berg, 1956 
Traduzione italiana Giorgio Calabrese - Arrangiamento Ivano Fossati 
Incisa in Lindbergh (Lettere da sopra la pioggia) di Ivano Fossati, 1992
La canzone è stata scritta ai tempi della guerra di Indocina ma in breve è divenuta un manifesto contro la presenza coloniale francese nell'Algeria che lottava per la propria libertà. 
In Italia è stata ripresa per la prima volta da Margot, Margherita Galante Garrone (figlia di Alessandro Galante Garrone, moglie di Sergio Liberovici e madre di Andrea) nel periodo dei Cantacronache (1958/1960), poi è rimbalzata negli Stati Uniti incisa da Peter, Paul and Mary durante i moti di Berkeley, quindi ci sono state 4 traduzioni italiane, a cura di Paolo Villaggio, Luigi Tenco, Giorgio Caproni e Giorgio Calabrese. Ornella Vanoni l'ha inserita nella scaletta del suo tour nel 1971, ma la prima incisione italiana è stata curata da Ivano Fossati nel 1992, riprendendo la traduzione di Calabrese. 
Moulodji è stato l'interprete francese ed ha dovuto subire un esilio di circa 10 anni dal mondo della canzone francese, mentre Boris Vian, che pure morirà pochi anni dopo, spesso dovette esibirsi o scrivere sotto pseudonimo, tanta era stata la reazione delle destre francesi, De Gaulle in testa.
Fonte: peacelink

Sergio Toppi, l'artigiano del fumetto che non voleva essere chiamato 'artista'




26-08-2012 / CULT / NAZARENO GIUSTI
MILANO, 26 agosto - È un anno funesto questo 2012 per il mondo del fumetto: dopo la scomparsa a marzo di Moebius e di Joe Kubert due settimane fa, martedì è morto, nella sua Milano, Sergio Toppi. La cerimonia funebre si è tenuta giovedì mattina alla chiesa di San Lorenzo, presso la Cascina Monluè.
Era malato il vecchio Sergio, però ha continuato, sino alla fine, a lavorare. Come faceva da oltre mezzo secolo.
Se ne va un genio, lo diciamo senza giri di parole, non per sparare là una frase di circostanza ma perchè lo abbiamo sempre creduto. 
In molti hanno versato lacrime da coccodrillo in realtà buona parte del mondo del fumetto, in questi anni lo ha snobbato. Per fortuna ci sono state alcune gallerie, “Il Grifo” ma, sopratutto, “Il Giornalino” (di cui Toppi era da decenni una delle colonne portanti) e il Museo del Fumetto diretto da Angelo Nencetti che nel 2010 riuscirono a realizzare “Sulle rotte dell'immaginario” collana di 12 volumi che raccoglievano la gran parte dei lavori realizzati da Toppi.
Un tributo doveroso a colui che, insieme a pochi altri, ha veramente contribuito a innovare il fumetto attraverso una rivoluzione dell'impostazione della pagina con un segno, riconoscibilissimo, fatto da una ragnatela di tratti.
Era un signore Sergio Toppi. Un gentiluomo di “antica cortesia” che dava sempre del lei. Timido e riservato era un omino piccolo con grandi occhiali, un po' datati, che nascondevano due occhi curiosi.
In Francia, dove era pubblicato da Mosquito (che aveva dato alle stampe  "Sharaz-de" splendida versione de "Le Mille e una notte" che aveva riscosso uno strepitoso successo) durante una mostra a Parigi, nel 2003, il quotidiano “Le Figaro” lo paragonò a Klimt e Schiele (artisti che ammirava profondamente, come si capisce bene guardando certe sue opere) e con cui poteva "dialogare" tranquillamente.
Non voleva, però, essere chiamato artista: “lo detesto: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno fumetti. Non posso fare quello che mi passa la testa al mattino. Considero il fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene considerato la creazione artistica è molto più severo”.
Si riteneva, però, un artigiano, un onesto professionista. “Il professionista deve adattarsi a quello che gli viene richiesto, entro certi limiti. Può anche dire di no. Se accetta una cosa è tenuto a farla nel modo migliore. Come in tutti i lavori, ci sono delle cose che piacciono e altre meno, però bisogna cercare di adeguarsi alle richieste della clientela e dell'editore. Chi fa questo lavoro lo fa perché gli piace, si presume che anche dal solo fatto di disegnare possa ricavare piacere. Quando c'è stata la possibilità di lavorare a modo nostro l'abbiamo fatto, come nel caso di un'organizzazione particolare della pagina. Quando non è possibile, non lo si fa. Questa è la regola delle cose. Il discorso che facevo prima, per chi lavora professionalmente ci sono delle situazioni in cui bisogna adattarsi”.
Aveva iniziato a studiare medicina poi si era accorto che quella non era la sua strada. Aveva iniziato a lavorare come illustratore per la Utet e per le pubblicità animate dei fratelli Pagot. Al fumetto arrivò nel 1966 sulle pagine del glorioso“Corriere dei Piccoli” dove diede vita a "Mago Zurlì", su testi di Carlo Triberti, ispirato al personaggio interpretato sugli schermi televisivi dal presentatore Cino Tortorella. Poi sulle illustrò le sceneggiature di Milo Milani che raccontavano a fumetti fatti di cronaca, eventi storici, o adattamenti di grandi romanzi)
Lo stesso tipo di storie furono affrontate su “Il Messaggero dei ragazzi” dove, padreGiovanni.Colasanti (direttore del periodico), gli diede maggiore libertà. Lì cominciò veramente a nascere il suo stile inconfondibile e iniziò a sperimentare un nuovo modo di impostare la pagina.
Poi "Sgt. Kirk", la collaborazione a "La storia d'Italia a fumetti" di Enzo Biagi ma, sopratutto, negli anni ottanta straordinari racconti brevi interamente suoi per le riviste "Orient Express", "Alter Alter", "Corto Maltese", "Linus". Autentiche perle.
Ricordava malvolentieri gli anni della guerra. “Io sono del '32 e la guerra l'ho subita in pieno. Ho vissuto sotto i bombardamenti su Milano. Poi dovemmo sfollare in Valdossola dove ci avevano detto che avremmo trovato un po' di tranquillità. Invece lì ebbi modo di assistere alle sparatorie tra partigiani e nazifascisti. Conobbi per la prima volta la paura di morire, furono anni di sofferenza e di fame”.
Uno dei suoi ricordi più vivi, e più tristi, del primo dopoguerra era il buio per le strade in cui mancava la luce corrente. In quel buio, probabilmente, iniziarono a nascere le sue immagini.
Il suo primo approccio con il fumetto avvenne a una bancarella, quasi per caso. Sfogliando un numero di "Asso di Picche" rimase colpito dalla qualità dei disegni di due autori in particolare, Hugo Pratt e Dino Battaglia. “Ero giovane e non avevo una grande cultura fumettistica. Qualche volta mi capitava di leggere Flash Gordon, ma non ho mai avuto una passione viscerale per i fumetti, così come a tutt'oggi devo dire che non ne leggo” confessava.
Leggeva invece molta letteratura: Rigoni Stern, Faulkner, Hemingway, Tomasi di Lampedusa. Ma sopratutto Buzzati di cui amava i racconti brevi.
“Me ne colpì uno, in particolare: il famoso “Il Mantello” dove Buzzati per descrivere un tetro pomeriggio invernale usa due parole: “Volavano cornacchie”. Due semplici parole con cui si dava il senso di un atmosfera cupa e inquietante che anticipavano ciò che sarebbe accaduto. Una sapienza letteraria straordinaria sopratutto sul piano della sintesi”.
Nel cinema amava KurosawaGermi, Olmi e Monicelli. Lo aveva affascinato la visione di “Edipo re” di Pasolini per l'atmosfera senza tempo che il poeta era riuscito a trasmettere.
“In quell'epoca- spiegò nel 2009 a un convegno a Bologna in occasione della mostra"Toppi. Il segno della Storia"- imperversavano i peplum, film con una classicità fasulla, tratta da un certo semplicismo che hanno gli americani per quanto riguarda la nostra storia antica. Mi colpì di Pasolini la capacità  di ricreare un clima arcaico, lontanissimo, senza epoca, ricreando un'atmosfera magica. Senza stereotipizzare: per esempio: quando Edipo interroa la Sfinge è una specie di mostro informe, un idolo paleo africano”.
Una capacità che riuscirà a riportare nei suoi fumetti. La capacità evocativa e d'atmosfera di Toppi era, infatti, unica.  Un suo personaggio sia esso un cacciatore dell'Alaska, un guerriero africano, uno stregone atzeco o un cercatore d'oro del Wisconsin suggerisce una serie di considerazioni al lettore che sente la differenza  con gli stessi personaggi disegnati da altri autori.
“Se devo disegnare un fuorilegge australiano non gli farò mai un paio di stivali lucidi perchè per la vita che fa avrà scarpacce magari più grandi, coperte di polvere piene di macchie che danno l'idea di un individuo che cammina nella polvere e nell'acqua. Il cappello sarà sbeccato, sporco”.
Era molto importante per lui la documentazione , la ricerca anche se poi, alla fine, reinterpretava il tutto, rimanendo però fedele alla realtà. “Non si crea nulla dal nulla”diceva.
“Per esempio non è detto che una storia del medioevo  debba essere pignola, uno deve arrivare a crearsi un suo medioevo, completamente inventato, ma credibile. Vestiti, armature, architetture è importante conoscerle per rielaborarle. Ora, a questo si arriva solo guardandosi molto intorno. Uno può fare anche una commistione di generi, però prima bisogna aver capito bene le cose”.
Si definiva un “borghese”. Dal suo tavolo da disegno della grigia Milano per più di mezzo secolo aveva viaggiato nel mondo e nel tempo.
“Tutto quello che esula dall'alzarsi la mattina, farsi la barba e bersi il caffè è avventura. Quella serie di ambienti, di situazioni, di atmosfere di periodi che solleticano la nostra fantasia. Magari ad una persona come potrei essere io, il classico borghese, piace pensare a delle avventure nei posti esotici. L'avventura è questo. Quindi noi che abbiamo la possibilità di ricreare delle storie lo facciamo con piacere. Anche il lavoro è avventura”.
Però, aveva fatto anche viaggi reali, nei luoghi che lo affascinavano.
“I posti che mi premeva di vedere, li ho visti. Il Centro America me lo sono visitato, non dico benissimo, perché è grande, ma quel che ho visto mi ha soddisfatto moltissimo, Il Messico. Sono posti completamente diversi. Poi mi ha interessato vedere il New England. Voi forse non l'avete sentito nominare, ma per quelli della nostra generazione, specialmente per i disegnatori come me, c'era un libro di culto: Passaggio a Nord Ovest, che si svolgeva in una parte dell'America Orientale, nel New England. Ho sempre desiderato vedere due o tre posti che vi erano descritti. Quando l'ho letto da ragazzo era il mio libro dei sogni. Una storia ambientata nel '700, con guerre indiane, francesi e inglesi, foreste e laghi. Quando l'ho visto è stata una grande emozione. Pratt ha ambientato lì tutti i suoi racconti. Era una strana epoca dove gli europei combattevano in foreste incredibili con il tricorno e la parrucca bianca insieme agli indiani rapati con il ciuffetto in testa”.
Il suo non era certo un segno "bonelliano". Nonostante questo, però, per l'allora Cepim realizzò due splendidi episodi della collana “Un uomo, un'avventura”:“L’uomo del Nilo” (le gesta di Gordon Pascià nella guerra contro il Mahdi sudanese) e “L’uomo delle paludi” (sui seminoles della Florida) oltre a realizzare due avventure di Nick Raider e il mitico numero 11 di Julia.
Sergio Bonelli, era un suo grande ammiratore. Nella presentazione di una rassegna di tavole toppiane alla galleria milanese L’Agrifoglio, affermò: “Lo confesso, io a lui sono anche debitore di una specie di passaporto internazionale. Quando, da perfetto sconosciuto quale sono, grazie al cielo, al di fuori del mio piccolo mondo fumettistico italiano, mi presento a qualche manifestazione dedicata ai comics (a New York come a Buenos Aires, a Barcellona come ad Angoulême), mi basta una semplice dichiarazione per suscitare l’interesse e la stima dei miei interlocutori: “Mi chiamo Sergio Bonelli, pubblico fumetti in Italia e sono l’editore di Sergio Toppi”.
Altro suo grande estimatore era Oreste del Buono, che di lui diceva: “Dalle sue tavole così incise e così bulinate, dalla ricchezza traboccante delle sue storie misteriose e tragiche ci viene costantemente il conforto che può esistere un uomo così responsabile, così pronto a rispettare il suo impegno. Come una religione. Il suo lavoro tende alla perfezione, per semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di continuare ad imparare, perché non si finisce mai di d'imparare a questo mondo, specie per chi si è assunto l'incarico di creare immagini, di mettere la propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri”.
Lo sapeva bene Sergio e così ha fatto, sino alla fine. Con l'umiltà e la modestia che è dei grandi.



lunedì 3 settembre 2012

un sognatore nel cuore di vanessa - peppe lanzetta







«Vogliono comprarsi la mia vita» disse Occhibelli a Vanessa. Una breve comunicazione telefonica su un cellulare dove lui aveva trovato un mare di messaggi: di lei che lo coccolava, del mondo che voleva qualcosa da lui. Ma lui era un sognatore, dipingeva da Dio, ma i mercanti dell´arte erano in agguato. Comprare, vendere, aste, New York, Parigi, Milano. Soldi soldi soldi. Quello che lui voleva aveva il sapore del mare in un vecchio gozzo sul porto di Pozzuoli, quell´aria salata che albergava dietro il piccolo albergo della darsena. Vanessa quel giorno era triste perché Occhibelli stava male e non riuscivano a vedersi. Perché lui quando era così non voleva farsi vedere da nessuno tanto meno da lei che era un fiore di vita, di bellezza, di gioventù.
Ma lei già lo aveva capito. Gli aveva saputo leggere nel cuore, nell´anima, più in giù. «Mi ero fatta bella per te, ho anche una stupenda scollatura».
Era stata una giornata mozzafiato, come se settembre avesse chiesto il permesso alla più bella giornata dell´estate per presentarsi o per congedarsi.
L´aria calda, le ragazze con i top, gli ombelichi in evidenza, la frutta di stagione che non voleva andar via e campeggiava sui banchi di un mercato che sembrava riflettersi nell´acqua di mare. Un camion si imbarcava su un traghetto per l´isola, delle persone anziane ferme a osservare quella vita fatta di piccole manovre, a perdersi nelle lenze di pescatori alla buona, un ritmo sonnolento, fuori dalla grande e tentacolare città che invece correva correva come i cavalli al palio e non sentiva più la musica del mare, non aveva occhi per guardare le onde stanche che si infrangevano sommessamente su quel molo scuro, saraceno, arabo, forte, tenero, che saliva, scendeva come un umore di una vecchia comare, una matrona con le cosce spalancate che compra e vende soldi.
Avrebbe voluto vedere Vanessa quel giorno Occhibelli, s´era preparato per lei, ma dentro era roso da una malinconia che gli bloccava le membra, eppure la vita era dentro di lui, in ogni centimetro della sua pelle ancora abbronzata, nei suoi piedi e sulle sue labbra che facevano impazzire Vanessa. «Fottitene di tutti, ti prego, viene da me, anche se oggi ho l´herpes. Avevi detto che mi avresti presa a morsi, dove è quella voglia, quell´impeto?». «Ho bisogno di stare solo con me» disse lui. «Con il mio sacchetto di frutta e la musica del mare».
Vanessa aveva fatto un viaggio per lui, era sulla collina della città tormentata e guardava il cemento ai suoi piedi, sarebbe andata a una cena dove i suoi occhi non avrebbero visto nessuno, la sua mente non avrebbe memorizzato alcun discorso, cercava solo lui, i suoi occhibelli, il suo odore, il suo sapore.
«Ti prego non te ne andare da me» gli disse come una bambina, come una farfalla su un fiore, come una ninfa che non sa e non può allontanarsi dal corpo del suo amato. Ma lui ormai già era andato. Anche se quella notte l´avrebbe passata a leggere i messaggi che lei impetuosamente gli mandava sul cellulare.
Dinah Washington cantava "Blue Gardenia" sulla sera già notte di Occhibelli che non aveva capito ancora e non l´avrebbe mai più capito che la sua vita, la sua arte per gli altri era merce, come frutta che lui aveva comprato, come le scarpe che s´era messo ai piedi. Lui non lo voleva capire, Vanessa non lo avrebbe mai saputo, perché quando si erano conosciuti avevano fatto un patto: non ci diciamo niente di quello che siamo, delle nostre storie, delle nostre vite. Ci amiamo soltanto. Era un ultimo tango, magari a Pozzuoli.
agosto 2006