maria, angelina e rosalia di girolamo

giovedì 26 aprile 2012

rosa balistrieri






Rosa Balistreri  (Licata 21/03/1927 - Palermo 20/09/1990), nacque da una famiglia molto povera, e visse l'infanzia e la giovinezza nella miseria e il degrado sociale nel quale a quei tempi versava il quartiere della Marina di Licata.
La figura del padre, falegname, uomo geloso, spesso violento, amante del gioco e del vino, si contrapponeva a quella della madre, donna semplice e buona. Rosa fu la primogenita ed ebbe due sorelle e un fratello, disabile dalla nascita.
Il sostegno della famiglia proveniva dal ricavato di piccoli lavori di falegnameria del padre, il principale dei quali consisteva nel riparare le sedie, attività che svolgeva andando spesso anche nei paesi vicini, Palma di Montechiaro, Butera, Riesi.
Rosa aiutava il padre percorrendo in lungo e in largo la città a piedi nudi in tutte le stagioni carica delle sedie che portava ai clienti.
Fin da bambina si dedicò alle più umili attività: servì presso le case di famiglie benestanti e andò a lavorare nella conservazione del pesce nel quartiere Salato, dove in quel periodo regnavano la sporcizia e il cattivo odore; nella stagione estiva, andava con il padre a spigolare per i campi assolati, portando a casa alcune manciate di grano che sfamavano la famiglia per pochi giorni.
In queste difficili condizioni, Rosa scaricava la sua rabbia e il suo disagio cantando a squarciagola lungo le stradine della Marina.


Dopo la guerra, Rosa si trasferì per un periodo con la sua famiglia nella vicina Campobello di Licata e con il padre si dedicarono al consueto lavoro di "aggiustatori" di sedie (siggiari).
Ancora oggi i più anziani ricordano i canti con quella voce rauca che risuonavano per le strade.
In quel periodo conobbe un fante italo-americano di cui si innamorò, ma la breve storia finì con la partenza delle truppe americane.
Ritornata a Licata con la famiglia, dopo i quindici anni cominciò ad essere chiamata per cantare in chiesa durante battesimi e matrimoni indossando per la prima volta le scarpe.


Non potè sposare il cugino Angelino perchè la futura suocera reclamava il corredo che la famiglia di Rosa non poteva permettersi e a sedici anni fu data in sposa a "Iachinuzzu", che lei durante un suo spettacolo a Licata, definì "latru, jucaturi e 'mbriacuni", ( ladro, giocatore e ubriacone ).
La vita matrimoniale fu ancora più misera e degradante di quella trascorsa nella sua famiglia d'origine, tanto da portarla, in preda alla disperazione, ad aggredire con una lima il marito nella casa di via Martinez, in seguito alla scoperta della perdita al gioco del corredo della figlia. Credendo di averlo ucciso, andò a costituirsi dai carabinieri, affrontando anche la galera.
Dopo sei mesi di prigione, Rosa per mantenere sè stessa e la figliola, andò a lavorare presso una vetreria, lavoro che però fece per poco tempo, a causa delle molestie perpetrate dal padrone. Rosa iniziò così a raccogliere e vendere lumache, capperi, fichidindia e, nel periodo adatto, salava le sarde nei magazzini del Salato.


Grazie all'interessamento di un parente si presentò a Rosa l'opportunità di recarsi a Palermo al servizio di una famiglia nobile. Ma la sua vita già difficile le serbava ancora un'esperienza amara e dolente: il figlio dei ricchi padroni la mise incinta e, mossa dalle molte illusioni che nutriva verso il giovane, fu spinta da costui a rubare denari nella casa dei genitori. Scoperta, fuggì a Sondrio presso il sanatorio dove era ricoverata la madre. Fu trovata, arrestata e condannata a sei mesi di carcere che scontò a Palermo.


Uscita dalla prigione, disperata, fu costretta, anche se incinta, a vivere da nomade dormendo sui sedili della stazione o alle porte dell'ospedale, fino a quando non fu accolta da un'amica ostetrica che l'aiutò a partorire. Il suo bambino però nacque morto.
Ripresasi dalle fatiche del parto, aiutata dall'amica, andò al servizio del conte Testa, acquistando una certa serenità, potè così sistemare la propria figlioletta in collegio a Palermo e imparò a leggere e scrivere.
Dopo un breve periodo dovette abbandonare la casa del conte, che tuttavia continuò a proteggerla, procurandole il lavoro di sagrestana e custode della chiesa degli Agonizzanti.
Viveva in un sottoscala insieme a suo fratello Vincenzo, invalido, che faceva il calzolaio. Quando la chiesa venne affidata a un nuovo prete, le cose peggiorarono: il prete, infatti, mostrò di avere un interesse "particolare" nei suoi riguardi; Rosa non cedette e fu mandata via, ma prima svuotò le cassette dell'elemosina e così potè comprare un biglietto ferroviario per sè e per suo fratello Vincenzo, senza una destinazione precisa. Il viaggio si sarebbe poi concluso a Firenze e sarebbe ritornata a Palermo solo venti anni dopo, quando ormai la sua vita aveva cambiato corso.


A Firenze il fratello Vincenzo aprì una bottega di calzolaio e Rosa trovò lavoro al servizio di una distinta famiglia fiorentina. Rosa conquistò così una certa tranquillità tale da permetterle di richiamare tutta la sua famiglia. La sorella Maria però, sposata, rimase a Licata. Solo più tardi Maria raggiunse Rosa, quando scappò da Licata con i figli per sfuggire alle prepotenze del marito che, raggiuntala, la uccise. A seguito di questa tragedia il padre di Rosa si tolse la vita impiccandosi.


Superati questi dolorosi avvenimenti per Rosa iniziò una periodo di serenità: incontrò il pittore Manfredi, con cui visse per dodici anni, che le diede tanto amore e la possibilità di conoscere grandi personaggi della cultura e dell'arte.
Tra i tanti conobbe Mario De Micheli che, estasiato della sua voce, le diede la possibilità di incidere il suo primo disco con la Casa Discografica Ricordi, evento che segnò l'inizio della sua vita artistica.
A Bologna conobbe il poeta dialettale Ignazio Buttitta (che per lei avrebbe poi scritto numerose liriche) e il cantastorie Ciccio Busacca, con i quali instaurò una sincera amicizia. Grazie a queste frequentazioni ebbe modo di entrare a pieno titolo nel mondo dello spettacolo. Conosciuto Dario Fo partecipò nel 1966 al suo spettacolo "Ci ragiono e canto".
La sua attività proseguì con concerti al teatro Carignano di Torino, al Manzoni di Milano e al Metastasio di Prato alternati a esibizioni in varie sedi e a seminari sulla musica popolare in alcune università.


Finita l'avventura con il suo Manfredi, che la lasciò per una modella, Rosa cadde in depressione, e tentò il suicidio; fortunatamente fu salvata e dovette richiamare tutte le sue forze e il suo coraggio perchè l'aspettava un'altra prova della sua vita travagliata: la sua unica figlia era fuggita dal collegio e un bel giorno le si presentò incinta.
Rosa si "rimboccò le maniche" e chiese aiuto agli amici del partito comunista, che le permisero di esibirsi nelle Feste dell'Unità in varie città.


Alla fine degli anni sessanta recitò a Firenze con il Teatro Stabile di Catania, e decise quindi di andare in Sicilia. Rosa tornò così non più come serva, ma come artista affermata circondata da amici importanti, artisti, letterati e politici, e tenne molti spettacoli in diverse città siciliane.
Ebbe così modo di tornare nei luoghi della sua infanzia e della sua amara giovinezza, oltre che a Licata fu anche a Campobello di Licata dove tenne uno spettacolo al cine-teatro Italia riscuotendo un grande successo.


Nel 1973 partecipò al Festival di San Remo con la canzone in italiano "Terra che non senti" ma fu esclusa alla prima serata, ufficialmente poichè la canzone non era inedita, in realtà perchè il suo genere musicale venne considerato fuori moda.
Stabilitasi definitivamente a Palermo nella casa di via Maria Santissima Mediatrice, proseguì la sua attività recitando e cantando al Biondo di Palermo in "La ballata del sale", uno spettacolo appositamente per lei scritto da Salvo Licata, a cui Rosa avrebbe poi chiesto di scrivere la sua biografia, che non fu però mai realizzata.


Negli anni ottanta, in giro per l'Italia, partecipò con Anna Proclemer allo spettacolo "La Lupa" tratto dall'omonima novella di Giovanni Verga.
Fa parte della sua esperienza teatrale la partecipazione a "La lunga notte di Medea", diretta da Corrado Alvaro e "Le Eumeneidi" a Gibellina; al Biondo di Palermo recitò ancora in "Bambulè" di Salvo Licata.
Il 1987 fu per Rosa l'ultima estate artistica come attrice teatrale. Come cantautrice continuò a girovagare per il mondo: in Svezia, in Germania, in America raccogliendo sempre applausi e apprezzamenti.


Alla fine degli anni ottanta Rosa si stabilì a Firenze incidendo alcuni dischi e partecipando a diversi spettacoli folk. A Licata tornò un anno prima di morire, e in quell'occasione si esibì in uno spettacolo in Piazza Sant'Angelo. Diverse pecche nell'organizzazione, causarono il suo disappunto, che lei stessa espresse pubblicamente come era solita fare col suo carattere schietto, senza peli sulla lingua. Durante la sua permanenza a Licata Giuseppe Cantavenera scrisse la sua biografia.


Rosa si spense all'ospedale Villa Sofia a Palermo, colpita da un ictus cerebrale mentre partecipava ad uno spettacolo in Calabria.


Il ricordo di Rosa è sempre vivo nella memoria del popolo licatese che ogni anno le tributa un omaggio attraverso un "Memorial" a lei intitolato. 






Testo scritto da Pierina Augusto La Paglia


La maggior parte delle notizie sulla cantante sono state prese dal libro "Rosa Balistreri . L'ultima cantastorie" di Calogero Carità che pubblicamente ringraziamo.
Preziose fonti sono state i periodici locali La Vedetta e La Campana, che spesso pubblicano notizie su Rosa Balistreri, nonchè le testimonianze dirette di persone che l'hanno conosciuta come il dottor Vincenzo Marrali. 



buttana di to mà - rosa balistrieri



Puttana di tua madre


Puttana di tua Madre, sono in galera.
Senza aver fatto nemmeno un millesimo di danno.
Tutti gli amici miei, sono stati contenti
quando mi hanno portata in carcere
Tutti gli amici miei, traditori e carogne
e quello che ha mangiato la castagna [ndt, che ha tradito]
Quando mi hanno arrestata ero innocente
era il giorno di "Ognissanti"
e non sono morta, no, sono ancora viva
c'è olio nella lampada, e ancora arde [ndt, bellissimo!]
Se Dio vuole ed esco da questa tana
la risposta gli darò ai traditori.
Devono pur passare questi ventinove anni
undici mesi e ventinove giorni [ndt, tragica ironia]


traduzione: Lelio 123








la fine di un romanzo

sunset

…la nave faceva rotta verso le azzurre colline e aumentava la velocità.
“ Tommy “ disse Willie. “ Ti voglio bene, figlio di puttana, e non morire. “
Thomas Hudson lo guardò senza muovere la testa.
“ Cerca di capire, se non è troppo difficile. “
Thomas Hudson lo guardò. Si sentiva ormai lontano e non aveva più problemi. Sentiva la nave prendere velocità e il sommesso pulsare dei motori contro le scapole premute sul duro legno dell’assito. Alzò lo sguardo e c’era il cielo che aveva sempre amato e guardò attraverso la grande laguna che, ormai ne era sicurissimo, non avrebbe mai dipinto, e cambiò leggermente posizione per alleviare il dolore che provava. Ora i motori saranno sui tremila giri, pensò: e attraverso il ponte era come se penetrassero in lui.
“ Credo di capire, Willie “ disse.
“ Oh, merda “ disse Willie. “ Tu non hai mai capito chi ti ha voluto bene. “


Tratto da: isole nella corrente – ernest  hemingway – ed mondadori 1972

il tenore zagolin - fabrizio bentivoglio - (iniziamo la giornata)




cos'è successo al tenore oliviero zagolin
che appena è entrato in camerino 
ha dato un tiro, è ancora lì
perche la roba gira
non solo dentro il rock
ma anche nella lirica
si fanno certe canne
che levati!

e adesso vaglielo a spiegare alla signora zagolin
che suo marito è in camerino 
fuori come san marin
e che la roba gira
non solo dentro il pop
ma anche nella lirica
si fanno certe canne
che levati !

perche la vita è un pugno in faccia
un po’ sfruguglia un po’ minaccia
ti piaccia o non ti piaccia è cosi
c’est la vie, merci, je vous en prie !

e’ stato anche un buon ciclista oliviero zagolin
sia scalatore che da pista il tenore zagolin
e il fiato non gli manca mai
polmoni cinque o sei
polmoni per la lirica
ma si fa certe canne
che levati !

perche la vita e un pugno in faccia
una chiodata alla borraccia
ti piaccia o non ti piaccia è cosi
c’est la vie, merci, je vous en prie !

perche la vita e un pugno in faccia
un po’ sfruguglia un po’ minaccia
ti piaccia o non ti piaccia è cosi
c’est la vie, merci, je vous en prie !

perche la vita e un pugno in faccia
un po’ sfruguglia un po’ minaccia
ti piaccia o non ti piaccia e cosi
c’est la vie, merci, je vous en prie !

oliviero, oliviero, oliviero 
(un poco di acqua e zucchero)
che non si sappia in giro!!!!

parole e musica: rocco papaleo

martedì 24 aprile 2012

the partisan - leonard cohen


the partisan - leonard cohen - testo e traduzione


“When they poured across the border
I was cautioned to surrender,
this I could not do;
I took my gun and vanished.
I have changed my name so often,
I’ve lost my wife and children
but I have many friends,
and some of them are with me.
An old woman gave us shelter,
kept us hidden in the garret,
then the soldiers came;
she died without a whisper.
There were three of us this morning
I’m the only one this evening
but I must go on;
the frontiers are my prison.
Oh, the wind, the wind is blowing,
through the graves the wind is blowing,
freedom soon will come;
then we’ll come from the shadows.
Les Allemands étaient chez moi,
ils me disent, “résigne toi,”
mais je n’ai pas peur;
j’ai repris mon arme.
J’ai changé cent fois de nom,
j’ai perdu femme et enfants
mais j’ai tant d’amis;
j’ai la France entière.
Un vieil homme dans un grenier
pour la nuit nous a caché,
les Allemands l’ont pris;
il est mort sans surprise.
[The Germans were at my home
They said, “Surrender yourself”
But I am not afraid
I have retaken my weapon
I have changed names a hundred times
I have lost wife and children
But I have so many friends
I have all of France
An old man, in an attic
Hid us for the night
The Germans captured him
He died without surprise.]
Oh, the wind, the wind is blowing,
through the graves the wind is blowing,
freedom soon will come;
then we’ll come from the shadows”.


Traduzione.

“Quando ci hanno invaso attraversando la frontiera
mi fu intimato di arrendermi
questo non potevo accettarlo
ho preso il mio fucile e sono sparito
ho cambiato il mio nome così tante volte
ho perso mia moglie ed i miei figli
ma ho molti amici
e qualcuno di loro è ancora con me
Una donna anziana ci ha fornito un rifugio
ci ha tenuto nascosti nella soffitta
poi sono arrivati i soldati
lei è morta senza un fiato.
Eravamo in tre questa mattina
sono solo io questa sera
ma devo andare avanti
le frontiere sono la mia prigione
Il vento, il vento sta soffiando
attraverso le tombe il vento sta soffiando
la libertà ritornerà presto
ed allora noi usciremo dall’ombra
I tedeschi erano nella mia casa
mi hanno detto “Consegnati”
ma io non ho avuto paura
ho ripreso la mia arma
Ho cambiato nome almeno cento volte
ho perso mia moglie ed i miei figli
ma ho molti amici
ho (con me) tutta la Francia
Un uomo anziano, all’ultimo piano
ci ha nascosti solo per questa notte
i tedeschi lo hanno catturato
lui è morto senza esserne sorpreso
Il vento, il vento sta soffiando
attraverso le tombe il vento sta soffiando
la libertà ritornerà presto
ed allora noi usciremo dall’ombra”

(Traduzione, con alcune variazioni, tratta dal sito Musica & Memoria)

lo avrai camerata kesserling - piero calamandrei



Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento.

A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide "ad ignominia", collocata nell'atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l'avvenuta scarcerazione del criminale nazista. L’epigrafe afferma: 
 

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA



Testo introduttivo a cura dell'ANPI


Fonte: www.partigiano.net

lunedì 23 aprile 2012

golfo de penas - francisco coloane


foto: Acque del Golfo de Penas


Tra un’onda e l’altra, la nostra nave si inclinava come un animale ferito in cerca di una via di salvezza, attraverso quell’orizzonte sbarrato da creste agitate e scure.
“Tieniti forte, vecchia mia!” disse un marinaio, stringendo i denti e contraendo i muscoli del volto, come se avvertisse una fitta dolorosa alle viscere. La nave, quasi lo avesse sentito, scricchiolò compiendo una virata di quarantacinque gradi e risalì la cresta di un’altra onda, praticamente adagiata su un fianco, ma ormai in salvo dal salto mortale che avrebbe rischiato di farla colare a picco.
Lo sbarramento d’acqua era totale. Sopra, anche il cielo sembrava un’onda sospesa sulle nostre teste, dal cui ventre cadeva violenta una pioggia fitta e sfibrante.
A un tratto, emergendo dalla tormenta, apparve sulla cresta dell’onda un’ombra più densa; un’altra onda la nascose alla vista, e una terza la riportò in alto mostrandoci un’immagine insolita per quei mari aperti: una barca con cinque uomini.
Strano incontro, perché in quel golfo si avventurano solo navi di grosso tonnellaggio. La nostra, con le sue dieci miglia di andatura, stava lottando da oltre ventiquattro ore per attraversarlo da sud a nord, e un guscio di noce come quella minuscola barca non poteva sperare di farlo in meno di una settimana fino al Faro San Pedro, i primi picchi rocciosi di terraferma che si incontrano a sud del temuto golfo.
Nel fragore della tempesta, la campana della sala macchine risuonò come un cuore che rimbombava sulle pareti di metallo, e la nave diminuì l’andatura.
Era una barca in legno di cipresso, dallo scafo largo, e il fasciame di grosso spessore mostrava la polpa rossiccia, tanto era stato flagellato dal mare e dalla pioggia. I quattro vogatori remavano vigorosamente da ritti, un piede piantato sul banco e l’altro sul pagliolo del fondo, e tenevano lo sguardo fisso sul mare, soprattutto sull’onda in caduta, quando la massa d’acqua scivolava vertiginosamente verso l’abisso. Anche l’uomo che governava la barca, aggrappato alla barra del timone, stava in piedi, e mentre con una mano aiutava il rematore di poppa, con la spinta del corpo sembrava imprimere forza a tutti, che come un sol uomo seguivano il ritmo del suo impulso. Di tanto in tanto una cresta sfrangiata nascondeva la barca, e allora sembrava stessero vogando sospesi sul mare per una sorta di prodigio.
Quando ci furono di fianco, venne lanciata una cima legata a uno scandaglio, che il rematore di prua assicurò con un nodo scorsoio a un anello fissato sul banco. La vicinanza diventava sempre più pericolosa. Le onde innalzavano e abbassavano scompostamente la nave e la barca in modo tale che, in qualsiasi momento, lo scafo poteva cozzare contro la fiancata di ferro della nave finendo in pezzi. Una scaletta di corda fu calata dal bordo e, quando la cresta di un’onda alzò la barca fino ai traversi del ponte, il timoniere spiccò un salto e si afferrò alla scaletta, arrampicandosi con l’agilità di un gatto. Mise piede in coperta e come un fulmine salì le scale fino al ponte di comando.
Lassù, lui e il capitano si chiusero in cabina. Restammo in attesa. I rematori si tenevano a una prudente distanza con il loro guscio di noce; la nave affondava la prua tra le onde e la rialzava come una testa stremata, scrollandosi la spuma di dosso. Il nostromo e i marinai erano pronti a effettuare la manovra di issaggio della barca a bordo, non appena il capitano avesse dato l’ordine.
I minuti trascorrevano lenti. Perché ci mettevano tanto a decidere di salvare una barca in mezzo all’oceano?
La tensione dell’attesa diminuì quando vedemmo uscire il barcaiolo dalla cabina. Fece uno strano cenno con la mano e ridiscese le scale con balzi da capriolo. Ma l’ordine di issare i naufraghi non venne dato. Il nostro sconcerto, a quel punto, aumentò.
Passandomi accanto, mi rivolse uno sguardo freddo ed energico. Volevo dire qualcosa, ma il suo sguardo mi trattenne dal farlo. L’uomo era inzuppato d’acqua; indossava pantaloni di lana grezza e un maglione pesante, la testa scoperta e i piedi nudi; il volto sembrava slavato come il legno della sua barca e tutto in lui emanava un’agilità invidiabile, con la quale pareva difendersi dal flagello implacabile delle intemperie.
Riattraversò la nave come un fulmine, scavalcò il bordo, si aggrappò alla scaletta e, approfittando di un rollio, con un balzo si ritrovò nuovamente alla barra del suo timone.
“Mollaaa!” gridò, e il marinaio a prua sciolse la cima, lanciandola in aria con un gesto disinvolto e sprezzante. I rematori ripresero a vogare con notevole energia, e la barca scomparve dietro a una montagna d’acqua. Un’altra la sollevò sulla cresta, e quindi svanì così com’era apparsa, un’ombra più densa inghiottita dalla tormenta.
Sulla nave l’unico ordine che risuonò fu la campana della sala macchine, che aumentò l’andatura. I marinai erano stupefatti, in attesa di qualcosa, a mani vuote. Il nostromo recuperava la cima e lo scandaglio lentamente, svogliato, quasi stesse raccogliendo tutto il disprezzo del mare.
“Perché non li abbiamo presi a bordo?” chiesi più tardi al capitano.
“Il padrone della barca non ha voluto che li accogliessimo in qualità di naufraghi”, mi rispose.
“E perché?”
“Siamo cacciatori di foche dell’isola di Lemuy e andiamo nei canali maggellanici in cerca di pelli! Non siamo naufraghi!” mi ha detto.
“Non sapete che le autorità marittime vietano di uscire oltre un certo limite con una piccola imbarcazione?”
“Non è una piccola imbarcazione, è una barca a cinque vogatori e tutti gli anni in questo periodo attraversiamo il golfo. L’unica cosa che le chiediamo è di portarci un po’ più vicino alla costa e lasciarci lì, nient’altro!”
“Se vi prendo a bordo devo consegnarvi alle autorità della Capitaneria nel porto della vostra giurisdizione!”
“No, là ci registrerebbero come naufraghi…E questo…neanche morti! Non siamo naufraghi, capitano!”
“Allora niente da fare.”
“Va bene, capitano!”
E con un gesto della mano, il padrone della barca aveva considerato chiusa la conversazione.
Non riuscì a trattenermi dal dire:
“Piuttosto che lasciarli a combattere con la morte in mezzo a quest’inferno d’acqua, poteva dar loro una possibilità, portandoli più vicino alla costa! In quel punto, chi l’avrebbe mai costretto ad applicare il regolamento?”
“Quel tipo era cocciuto!” ribattè il capitano; e guardandomi di sbieco aggiunse:”Se mi avesse pregato solo un po’, ce l’avrei portato!”
Fuori, la tormenta imperversava sempre più forte sul Golfo de Penas.

Tratto da: “i balenieri di Quintay”  ed: guanda 2000

la casa di jack, marina corta - lipari

il cane che andava per mare - stefano malatesta

Marina Corta (Lipari)Marina Corta (Lipari)Marina Corta (Lipari)La sensibilità olfattiva di Jack era da un milione a cento milioni di volte più forte di quella di un essere umano. In questo non aveva nulla di speciale. Negli anni Cinquanta un famoso esperto canino pubblicò degli articoli in cui faceva un parallelo tra l’olfatto dei cani e quelli degli uomini. Aveva scoperto che la distanza che passava tra l’umido tartufo di un qualsiasi bastardo e il più aristocratico dei nostri nasi era incommensurabile.
L’unicità di Jack non stava nell’intensità, ma nella selezione. Sapeva sempre quando il battello in avvicinamento era un ferry e non un aliscafo, ancor prima che avesse virato per entrare nell’insenatura sotto la rocca. E non si sbagliava mai sulla destinazione. Lo si capiva dalla sicurezza con cui s’imbarcava, subito dopo l’attracco, come se conoscesse a memoria gli orari. Non voglio azzardare nessuna ipotesi parascientifica in proposito. La vita di Jack non è riducibile a comportamenti da laboratorio.
Non era uno di quei cani che alle Eolie te li ritrovi sempre sui moli, scodinzoloni e uggiolanti, o famelici, in cerca di qualsiasi cosa da masticare e da ingoiare in fretta. E quindi sempre in movimento. Per quasi tutta la giornata, Jack dormiva sotto il ponte di Marina Corta, a Lipari, di fronte alle barche che dondolano in attesa dei turisti. Era troppo superiore agli altri cani per imbrancarsi con loro e mostrare cordialità o animazione. Ma anche nel sonno, il suo naso lavorava per lui come fosse un’entità indipendente, mandando al cervello segnali molto particolari su quello che stava succedendo in un raggio non disprezzabile. Una volta qualcuno, davanti ad alcuni amici scettici, avvicinò una radio accesa al suo corpaccio muscoloso e immobile, steso sulla rena. Gli occhi di Jack rimasero chiusi, non un solo muscolo vibrò. Ma quando gli fecero ballonzolare sul suo testone una salsiccia calda comprata dal rosticcere, lo scatto per agguantarla e farla sparire fu il movimento più fulmineo che si fosse mai visto.
Aveva sempre vissuto da quelle parti: il sottoponte, la piazza di Marina Corta, gli uffici delle ditte di navigazione, i due pontili di attracco. E si può dire che fosse nato senza padrone. Noi crediamo stupidamente che nei cani la ricerca di un padrone sia un segno di sottomissione, indice di una natura prona e servile. Mentre loro sono spinti dal divertimento e dal piacere di iniziare una relazione che durerà tutta la vita. Il padrone può essere un personaggio umanamente interessante e volenteroso, ma dal punto di vista animale molto più interessante è la libertà di esplorare, di fiutare nuovi odori e di andare a zonzo. Jack come ho detto, non aveva padroni. E gli piaceva enormemente andare a zonzo, quando non dormiva. Da buon cane siciliano, passava da un estremo all’altro.
Non tornava da qualcuno, ma in un certo senso tornava a casa. Le storie di cani che tornano a casa da soli, percorrendo centinaia di chilometri, sono innumerevoli. Studiosi tedeschi, grandi esperti in comportamenti canini, hanno dei dubbi che un fiuto extra, insieme con la capacità di memorizzare il paesaggio e le strade, siano sufficienti a spiegare questi viaggi prodigiosi. Secondo loro ci deve essere qualcos’altro, un fattore sconosciuto, come un radar che li orienti, simile a quello che hanno i pipistrelli. Un apparato che non funzionerebbe come le onde radio, ma servendosi di vibrazioni legate in qualche modo al sentimento. Onde d’amore, di struggente nostalgia per il focolare.
E’ un interpretazione poetica, poco convincente perché fondata sul sentimentalismo degli uomini. I cani non sono sentimentali e Jack lo era meno di tutti. Quello che noi chiamiamo amore tra cane e uomo è qualcosa di primario che appartiene al caso. Il cane non s’innamora delle tue qualità, perché sei bello, simpatico, intelligente o buono. Succede che inciampa sui tuoi piedi e per questa ragione nasce un legame che non ha paragoni per intensità, nettezza e assenza di sfumature. Da questo legame ne ricava pura gioia o pura amarezza. Dipende da te. Lui non conosce i gradi intermedi.
Forse i cani tornano perché sentono il bisogno di ricostituire un equilibrio di rapporti che hanno perso. Ma questo non spiega nulla sul come riescano a tornare. La singolarità di Jack stava nel fatto che viaggiava per viaggiare e dimostrava la disinvoltura del vero viaggiatore che non dà molta importanza ai ritardi o ai prosaici inconvenienti che infastidiscono il turista. Io l’ho conosciuto tardi, un anno prima che morisse, intravisto la prima volta più che visto nella solita piazza di Marina Corta. Non ero rimasto incantato dal suo aspetto di duro da strada tra il mastino e il bulldog, razze che non sono tra le mie favorite. Si muoveva lentamente, come trattenesse la sua potenza, con l’andamento dinoccolato e consapevole che avevano i pugili di una volta, senza dare occhiate né a destra né a sinistra. Sembrava che non s’interessasse a nulla, ma era solo una finta. Tutti sapevano che controllava perfettamente la sua zona e che aveva dei riflessi da bestia abituata allo scontro improvviso.
Cominciai a raccogliere informazioni più complete su di lui qualche tempo dopo la sua morte stoica, risalendo all’indietro lungo la sua breve, inimitabile vita canina. Il mio informatore è stato il mio amico Luigi, il più entusiasta spacciatore di innocue frottole che allietavano le dolci serate di settembre, quando i caffè all’aperto tornavano a essere il tranquillo luogo d’incontro di Lipari. Luigi portava le stampelle, ma pochi minuti dopo averlo conosciuto, ti dimenticavi che gli servivano per sostenerlo. Si muoveva con l’agilità di un acrobata, con estrema leggerezza, come se fosse sempre in sospensione e mentre volteggiava intorno a te, salutava nuovi venuti, fermava ragazze sconosciute che stavano attraversando la piazza e continuava a raccontarti fatti inauditi che erano successi solo a lui, agitando in aria quei bastoni di ferro, diventati nelle sue mani uno strumento indispensabile per la narrazione.
Ma su Jack, si sentiva che non stava inventando. Doveva aver amato molto questo cane, credo per il suo spirito d’indipendenza  e perché si era fatto strada superando lo svantaggio iniziale di non avere un padrone e trasformandolo in una ragione di forza, esattamente come lui. Quando chiamai Jack un cane randagio, mi rispose con tono sarcastico, assolutamente raro, che quello era stato un cane che si poteva definire in numerosi modi. Ma non si poteva chiamare randagio chi girava per piacere e non per necessità.
Era stato un pescatore di Lipari a trovarlo, ancora cucciolo, ma già sicuro di sé. Il pescatore aveva una moglie – sarebbe più esatto dire che quella donna aveva anche un marito. Come tutte le eoliane, era allenata a mantenere la famiglia, in assenza di uomini sempre in mare o emigrati in Australia. Per lei un cucciolo era solo un fastidio, un animale che sporcava, di nessuna utilità. Jack venne portato a Marina Corta e lasciato sotto il ponte, dove c’è la rimessa invernale delle barche. Gli etologi hanno dato l’efficace nome di imprinting a quel fenomeno di impressione indelebile che si stampa nell’anima vergine degli animali appena nati. Una visione di qualcuno, breve ma intensissima, e il cucciolo è condizionato per tutta la vita. L’anima di Jack, che aveva quasi un mese, rimase impressionata non da un essere vivente, ma da un paesaggio, in cui il mare e i suoi illimitati confini avevano una parte dominante. Così la pensava Luigi, anche se non aveva mai sentito parlare di imprinting – ma il concetto era lo stesso. L’immagine dell’isolotto con i due moli, collegato con l’isola da tempo immemorabile, le ombre delle barche dei pescatori di totani che salpavano di notte, gli aliscafi che si alzavano e si afflosciavano sui pattini al momento della manovra, la rocca che guardava il mare e dominava la piazza, e le bellezze lontane che s’intuivano dietro un orizzonte bluastro: tutto questo venne assorbito in qualche frazione di minuto. Quella era la sua casa e non ci fu posto per niente altro.
Quando raggiunse la robustezza che gli competeva, Jack salì per primo su una passerella gettata sul pontile da un marinaio e andò a sedersi a poppa, all’aperto tra i bagagli dei turisti. Per qualche settimana venne aiutato da un equivoco che la sua tranquilla sicurezza e intuitiva conoscenza della pianta dei battelli rendeva possibile. I marinai pensavano che fosse un cane ben educato di qualche passeggero. I passeggeri amanti dei cani credevano di accarezzare il cane del capitano e quelli non amanti dei cani lo ignoravano. Qualcuno lo prese per un ausiliare della Guardia di Finanza, anche se non andava mai ad annusare in giro, comportandosi con riservatezza. Perché non dava mai confidenza. E all’arrivo scivolava via, forse un po’ troppo in fretta, prima che si accorgessero che non aveva padrone.
All’inizio seguiva il variegato circuito delle Eolie. L’unico paese dove non ha mai posato le sue zampone dinoccolate è Ginostra. Qui lo sbarco si svolge con il rollo – la barca che si accosta ondeggiando al battello, messosi controvento, mentre il marinaio aiuta i viaggiatori a scendere lungo una scaletta – e prendere in braccio Jack sarebbe stata una manovra impossibile. Ma si presentava con regolarità in tutti gli altri attracchi e con regolarità ripartiva. La scoperta della sua vocazione di cane marinaio da parte delle autorità competenti era arrivata troppo tardi perché le medesime autorità fossero in grado di prendere dei provvedimenti cosiddetti restrittivi, come qualcuno aveva invocato. In un raro lampo di intuizione e di buon senso, si convinsero che un cane così tranquillo, che non dava fastidio a nessuno e che si comportava meglio di molti passeggeri, poteva rappresentare una curiosità, a uso dei turisti. Non erano tutti amanti dei cani?
Raccontandomi i vagabondaggi di Jack, Luigi disse che l’aveva incontrato più di una volta in compagnia di qualche cagnetta, anche in località all’interno delle isole. E che l’area delle sue incursioni si era estesa fino a Napoli, città in cui aveva sicuramente qualche stretta conoscenza. Dunque viaggiava anche di notte, per lunghi percorsi, in una nave sgangherata, con delle cabine di prima classe allegre come le stanze di un riformatorio, dove per puro sadismo servivano panini fetenti. Ma dove si facevano scrupolo di essere severi con i cani, allontanati dai padroni – “motivi d’igiene” spiegavano i commissari – e rinchiusi in minuscoli gabbiotti inventati da un torturatore. Come riusciva Jack a mantenere il suo status di libero clandestino?
Forse la sua disinvoltura e il suo spirito indipendente dovevano colpire tutti quelli che incontrava. Si capiva subito che era un cane fuori della norma e che aveva comportamenti non omologhi a quelli degli altri esseri della sua stirpe. Era capace di cambiare atteggiamento se giudicava che l’ambiente potesse essere potenzialmente ostile, cercando di passare inosservato e sempre guardando apaticamente nel vuoto, come se stesse interpretando la parte di un soldato leggermente traumatizzato dalla guerra. Era una delle sue figurazioni più riuscite. Ma non si spingeva mai a leccare le mani che lo carezzavano, come avrebbe fatto un qualunque suo simile. Non era il solito fedele Fido, che sta dalla tua nella prosperità e nella miseria, nella salute e nella malattia e ti leccherà sempre la mano anche quando questa è vuota.
Per quanto lungo fosse il viaggio, alla fine rientrava sempre nel suo territorio, la piazza di Marina Corta, di nuovo un campione di placida insolenza, avendo in eccesso quella che si chiama padronanza di sé. Non tollerava intrusioni da parte di qualsiasi animale ed era veloce con le zanne. Sapeva però distinguere un semplice quattro zampe – e che cos’è l’intelligenza se non un continuo distinguo? – da un quattro zampe con una potente protezione e quando scendeva dalla rocca Jim, un cagnone bolso di razza moscia, accompagnato dal padrone, l’ex sindaco di Lipari, Jack si voltava dall’altra parte. Lo lasciava passare ma non lo voleva vedere.
Un giorno scomparve, ma nessuno se ne preoccupò. Se c’era un cane che sapeva badare a se stesso, questo era Jack, fin dai tempi in cui i marinai e i pescatori gli lasciavano avanzi di pesce e pezzi di polipo anche gustosi, che lui nemmeno toccava. Quando ricomparve in piazza, era dimagrito di sei o sette chili, barcollava e gli era venuto uno sgradevole rictus, che gli faceva digrignare o mostrare i denti a intervalli regolari, senza motivo. Fu chiamato un veterinario che solo dopo una settimana riuscì a visitarlo, perché il cane, diventato quasi scheletrico, non voleva farsi toccare. Il veterinario disse che con quel male che aveva dentro doveva essere già morto e tutti si convinsero allora che se la sarebbe cavata. Invece Jack aveva un altro programma e un mattino di agosto, già umido e senza speranza, si tuffò in acqua da uno dei due moli – nuotava benissimo – allontanandosi per una cinquantina di metri. Poi ruotò la testa verso la piazza, come il periscopio di un sommergibile e si lasciò affondare. Ho chiesto a Luigi se si ricordava un caso simile a questo. Mi rispose che un emigrato, molti anni prima, aveva portato dal Brasile un pappagallo per il figlio piccolo. Quando il ragazzo morì, il pappagallo, che non aveva mai volato, infilò la finestra, perdendosi nel mare e venne ritrovato sulla spiaggia delle cave di pomice con un’ala già divorata dai granchi.


Tratto da: “il cane che andava per mare” ed: neri pozza 2000

martedì 17 aprile 2012

nebulosa farfalla-telescopio hubble 2009





LA NEBULOSA FARFALLA 
La Nebulosa Farfalla (nota anche come NGC 6302 o con la sigla C 69) è una nebulosa planetaria bipolare visibile nella costellazione dello Scorpione; è una delle nebulose di questa classe più interessanti e complesse conosciute. Lo spettro di NGC 6302 mostra che la sua stella centrale è uno degli oggetti più caldi conosciuti nella nostra Galassia, con una temperatura superficiale superiore ai 200.000 kelvin, implicando il fatto che la stella progenitrice doveva essere molto grande.
Questa stella non è mai stata osservata, dato che è circondata da un disco equatoriale particolarmente denso di gas e polveri; questo disco avrebbe causato i getti della stella che oggi formano una struttura bipolare, dalla forma simile ad una clessidra. 


nebulosa eta carinae-telescopio hubble 2010


lunedì 16 aprile 2012

canzone al tramonto



                                              Tim Buckley-I had talk with my woman

il regalo di teresa




L'irrequietudine è la nostra pace: non offendiamo la vitalità bellissima dell’infanzia e dell’adolescenza

di Marco Lodoli


ESSERE RONDINE

Sgorgano

l’una dall’altra

esse, traboccano

fuori dal loro primo caldo gruppo l’una

dopo l’altra, disfano

le loro rapide pattuglie

sbandando sotto la loro impavida veemenza

ed eccole si lanciano,

nero zampillo ricadente,

su, alte nell’aria, ma poco –

è solo

un primo assaggio

quello, un primo guizzo di compressa fiamma

poi allungano

ciascuna più in alto – ciascuna

più, vorrebbe – il loro getto

ma non oltre il perimetro

del loro aereo campo,

non oltre il dominio della loro forza

e toccato quel limite rientrano

planando ad alta quota,

impetuosamente si rituffano

nella conca di quella inesauribile fontana.




Prima parte di “Essere rondine”, essere giovane nella primavera che esplode e scalda il sangue e mette mercurio nei pensieri e nelle gambe: Mario Luzi, poeta profondissimo, armoniosissimo, descrive questa fontana che zampilla nel cielo, questi voli che salgono e scendono e vorrebbero osare ancora di più, ma già conoscono il limite del campo, la misura delle proprie forze. E’ una poesia che rileggo spesso, soprattutto quando aprile, il più crudele dei mesi, inizia a smuovere e a rigenerare. Leggo e capisco meglio la smania dei miei studenti, che proprio non ce la fanno a stare compressi tra la sedia e il banco, a recitare l’orrore dell’immobilità, a punire la nuova tensione che li anima.

Non ce la fanno e non ce la faccio nemmeno io, guardo la finestra durante l’interminabile collegio docenti, durante i consigli di classe dove s’ammucchiano chiacchiere inutili, pesanti, grigie, guardo fuori e sento dentro la vita che salta, che pretende spazio ed energia, soffro nella reclusione. Dovremmo trovare il modo di usare tutta questa energia, di far girare le dinamo dell’intelligenza, i mulini del sapere senza mortificare, senza obbligare e obbligarci a una stasi mortale. E i bambini stanno a scuola per otto ore, otto ore in una scatola, a scrivere, far di conto, soffocare. Non dimentichiamo il “grande codice”, così definisce Luzi il ritmo segreto, la sintassi della natura che si ripresenta in rondini e torrenti e nuvole e gemme.

Non offendiamo la vitalità bellissima dell’infanzia e dell’adolescenza, e la nostra vitalità di esseri inquieti perché vivi, frementi perché curiosi. Per anni ho cercato nei libri della sapienza orientale, ho praticato la meditazione zen, sperando di trovare la pace. A qualcosa tutto ciò forse mi è servito, ma sono e resto un occidentale come i miei giovani studenti, e la mia verità probabilmente sta nell’ultimo verso di questa straordinaria poesia:



C’è pena

o c’è felicità in quel fervere

o in quell’affannarsi?

Che c’è in quel vorticare

della vita dentro i suoi recinti?

Sono libere

quelle anime,

ma libere di muoversi

a un ritmo segnato…

che dice la molle ricaduta

che cosa la razzante ascesa

e la frenetica frecciata –

si occulta spesso

talora si lascia leggere un pensiero

scritto in ogni parte

in ogni parte operante.

Lo esprimono forse esse,

lo gridano con strazio ed ebrietà,

ne infuriano –

è questo il loro essere rondini,

in quella irrequietudine è la loro pace.

venerdì 13 aprile 2012

elenuccia - peppe lanzetta


Quella domenica i peperoni erano rimasti sullo stomaco.
Salire e scendere.Scendere e salire.
Peperoni e niente, aria di mare in lontananza ma anche vento, mentre da una radio lontana arrivava la voce di Mango che cantava sirtaki, storie di Grecia e amori lontani.
Qui invece c’era giornata festiva che rimandava a cose già vissute, momenti uguali ad altri, sempre uguali, sempre gli stessi, da sempre e sempre di domenica.Domenica del rione Traiano, domenica da far passare in fretta.
Elenuccia seduta sul divano di casa sua fissava il vuoto.Sola.
Nell’aria c’era uno strano silenzio, silenzio di noia e fritto di pesce stemperato nell’aria tutt’intorno, ma anche silenzio di balconi chiusi perché ormai la gente se ne andava al mare.
Elenuccia non lavò nemmeno i piatti, accese due sigarette una dietro l’altra e seduta sul divano fissava il vuoto.
Pensava al Gargano, 10 anni prima, annata di fuoco, Gargano e amicizie, una tenda per accogliere gli amici venuti da Napoli e che non trovavano da dormire, una tenda piena di sacchi a pelo lettini scarpe ciabatte costumi asciugamani preservativi specchi doposole amori amori amori.
Una tenda piena di gioventù e la notte chi dormiva?
Alle 4 di mattina ancora a fare bagordi al Castellino, locale non locale discoteca ristorante sala da sballo vedutameravigliosadifronte casino; tutti da Pasqualevaimò, dove sei adesso grandeimmenso Pasqualevaimò? Stirpe garganica con un cuore senza confini e senza geografia.
E al Castellino si rimediava sempre una bruschetta preparata da Matteo e si guardava l’alba nascente lì di fronte, fra il fumo della brace che saliva e il fumo della mente che salivasaliva e quando si sarebbe fermato?!?
Castellino di yes I know my way e tutti a Foggia poi da Pino a gridare vaimò vaimò…Ti abbiamo amato tanto, Pino, tuttiquanti, compagni e scompagni, amici e non, forestieri e falsi, sinceri e ruffiani, di Varese e di Monza, di Bari e di Catania.
Chissà se invece tu hai ancora un pensiero per noi.
Noi del Castellino o del Paradisoselvaggio, noi dei bagni in piscina e a mare a qualunque ora del giorno e della notte, noi che l’acqua ce l’asciugavamo addosso perché chi cazzo se ne fregava dell’artrosi e dell’artrite e affanculo i dolori com’è bella l’acqua che ti scorre sul viso e sulla nuca quando il cielo è trapunto di stelle e risate, di toccate e sguardi, di sniffate di fesse e culi, di zizze e costumi chiamali costumi che ti facevano uscire la voglia dagli occhi, occhi luminosi di notte, notte pugliese, storie di brividi e di freddo nelle ossa, e come diceva Battisti tu chiamale se vuoi emozioni.Noi che dormivamo nella macchina persi fra zanzare e bottiglie ormai svuotate di Riverarosè, residui di una cena sicuramente straordinaria, piena di linguine ai datteri e al tempo chi ci pensava mai?!? E Matteo metteva ancora bruschette sulla brace e rullando strizzava l’occhio a Cristina di Monza e la lega cos’era?
C’erano corpi che si univano, lingue che s’intrecciavano, mani che s’attorcigliavano e il Sud era ancora più caliente e Monza s’inginocchiava sorridendo e i confini e i razzismi andavano a farsi fottere.
Ci salutammo al grido di VAIMO’, W IL GARGANO, ci vediamo l’anno prossimo.E la voce di Matteo c’accompagnava per le curve fino a Mattinata, Mattinatella, Manfredonia, Candela  e lì si spegneva.
Elenuccia pensava a Lino, ora medico imborghesito sino all’unghia, lui capellone e sballatone che c’addentrò a Vieste e a pensarlo adesso metteva una tristezza addosso senza fine…Chissà perché i medici non possono essere capelloni, almeno dentro, se proprio non possono esserlo fuori…
Elenuccia sola.
Sarà il tempo che passa, sarà che si diventa grandi o si invecchia, sarà che non si ha più voglia di mangiare una schifosa pasta aglio e olio, di correre di notte a casa di Sarasimon ad Aversa a fare casino e fumarsi l’anima.Dove sei Sara ora che Elenuccia ti sta pensando?
Te lo ricordi lo scarabeo d’oro che ti regalò e che tu ti sei venduta il giorno dopo per fame? Sarà il tempo che frega Elenuccia, il suo passare incessante, sarà che Elenuccia ha riso tanto e tanto ha fatto ridere che ora è come se non avesse più voglia.
E guarda nel vuoto. Di domenica.
E nel vuoto della domenica Elenuccia rivede il Ford Transit grigio che nella notte della Ferrovianapoletana si preparava a partire.
E ai ritardatari si fece poi la Allucchiata e poi motel e birrebirre e cappuccini e musicamusica e simonandgarfunkel e amori da nascere e altri da cancellare.E Simonetta già c’aspettava a Vieste con le sue zizze non zizze, poca roba ma di classe, con il suo sorriso senzafine che dalla Lombardia scendeva ogni anno puntuale sulla costa pugliese.
Quanta acquadimare è passata sulla tua pelle, dolce Elenuccia che accendi un’altra sigaretta mentre tutti dormono ora a casa tua e rafforzano la tua solitudine.
Ridi, se hai voglia di ridere, dai ridi, in questa domenica di 10 anni dopo, ridi pensando a Tonino e Bernadette, al Professore, alla Strega, a Irma, all’avvocato, a Pasquale che sapeva di dover morire fottuto dalla leucemia, a Hulk, al Maestro che si tuffava in acqua con gli occhiali e quanti cazzidispaghetti in tutti i modi abbiamo preparato, persino con l’erba che ci facemmo tuttiquanti e svegliammo tutto il campeggio e nessuno si incazzò…ridi, ridi, fottuta Elenuccia fuoriditesta, perché sei andata fuori, perché?
Chi l’avrebbe mai detto 10 anni fa, Elenuccia dei panzarotti di Peschici, Elenuccia che poi una mattina o l’altra saremmo dovuti andare alle isole Tremiti ma chi si svegliava presto?!? E si rimandava sempre.
Elenuccia che tutti perdevano la testa per te, perhè eri bellabella e per niente tu la perdi ora. Sola.
Non ci lasciare, Elenuccia, ci sono le Tremiti che c’aspettano e magari incontriamo pure luciodalla, ci sono ancora tante bottiglie di Rivera da scolarci, ci sono le bruschette di Matteo e le albe e le lavate a mare, quel mare chiaro e calmo che lotta con la tua mente agitata, in questa domenica umida e senza sapore.
Non ci lasciare, Elenuccia.   


Da: Figli di un Bronx minore - Universale Economica Feltrinelli - 1996

Note al testo: le parole unite insieme non sono errori ortografici, servono al ritmo del racconto.

giovedì 12 aprile 2012

israel kamakawiwo'ole



 

 

Israel “Braddah Iz” Kamakawiwo’ole (20 maggio 1959 - 26 giugno 1997) è stato un popolare cantante e intrattenitore hawaiano fino alla sua morte. Divenne famoso nel resto del mondo quando il suo album Facing Future fu pubblicato nel 1993 con il suo medley di “Somewhere Over the Rainbow/What a Wonderful World”. La canzone è stata inclusa alla fine di molti film, come Scoprendo Forrester, Vi presento Joe Black, 50 volte il primo bacio, Ritorno a Kavai, e anche in una puntata della serie tv ER, come colonna sonora dell’ultimo spot della Fiat Croma, e in una puntata di Scrubs. A giugno del 2007 è stata utilizzata anche per la pubblicità dell’acqua Sangemini.

Israel Ka’ano’i Kamakawiwo’ole nacque nel 1959 nell’isola di O’ahu al Kuakini Hospital da Henry Kaleialoha Naniwa e Evangeline Leinani Kamakawiwo’ole. Visse nella comunità di Kaimuki nel sobborgo di Waikīkī dove i suoi genitori si conobbero e si sposarono. Iniziò a suonare con suo fratello maggiore Skippy all’età di 11 anni, conoscendo la musica dei grandi artisti hawaiani del tempo, come Peter Moon, Palani Vaughn e Don Ho, che frequentavano l’ambiente dove lavoravano i suoi genitori.

Durante la sua adolescenza, la famiglia si trasferì a Makaha.
Lì conobbe Louis “Moon” Kauakahi, Sam Gray e Jerome Koko. Insieme al fratello Skippy formarono i Makaha Sons of Ni’ihau. Dal 1976 fino agli anni Ottanta, la band hawaiana raggiunse la popolarità in seguito a tour nelle Hawaii e negli Stati Uniti continentali, e pubblicarono dieci album di successo.

Nel 1982 suo fratello Skippy Kamakawiwo’ole morì. Nello stesso anno, Iz sposò la sua amica d’infanzia Marlene e subito dopo ebbero una figlia che chiamarono Ceslieanne “Wehi”.

Nel 1990, Iz pubblicò il suo primo album da solista Ka’ano’i che gli permise di vincere il premio per l’Album Contemporaneo dell’Anno e come miglior Cantante dell’Anno assegnatogli dalla Hawai’i Academy of Recording Arts (HARA). Facing Future fu pubblicato nel 1993. Considerato il suo miglior album, contiene la sua canzone più nota, il medley “Somewhere Over the Rainbow/What a Wonderful World”, assieme a “Hawai’i 78”, “White Sandy Beach of Hawai’i”, “Maui Hawaiian Sup’pa Man” e “Kaulana Kawaihae”. Nel 1994 l’HARA lo nominò miglior artista dell’anno.

E Ala E (1995) conteneva le canzoni politiche “E Ala E” e “Kaleohano” e in In Dis Life (1996) pubblicò “In This Life” e “Starting All Over Again”.

Man mano che la sua carriera proseguiva, Iz divenne noto per le lotte a favore dei diritti hawaiani e come attivista del movimento per l’indipendenza hawaiana, sia per la sua musica (i cui testi, spesso trattavano del problema dell’indipendenza) sia per la sua stessa vita.

Nel 1997, Iz fu di nuovo premiato dalla Hawai’i Academy of Recording Arts al premio annuale Na Hoku Hanohano come Miglior Cantante dell’Anno, Miglior Artista dell’Anno e Album dell’Anno. Iz seguì la cerimonia dalla stanza di un ospedale.

Nell’ultima parte della sua vita Iz divenne obeso e arrivò anche a pesare 340 Kg. Fu più volte ricoverato in ospedale e morì per problemi respiratori legati all’obesità alle 12:18 del 26 giugno, 1997 all’età di 38 anni. Per tutto il giorno fu mostrata la bandiera hawaiana a mezz’asta. Il suo corpo fu esposto al Capitol Building di Honolulu, dove più di 10.000 persone gli resero omaggio. Le sue ceneri furono sparse nell’oceano a Makua Beach.

Iz fu soprannominato “Gigante buono” dai suoi tanti ammiratori e anche noto per essere stato tra i pochi purosangue hawaiani al mondo. Fu descritto come sempre sorridente e ottimista e fu molto noto per l’amore per la sua terra e per la sua gente.



fonte wikypedia