L’unicità di Jack non stava nell’intensità,
ma nella selezione. Sapeva sempre quando il battello in avvicinamento era un
ferry e non un aliscafo, ancor prima che avesse virato per entrare
nell’insenatura sotto la rocca. E non si sbagliava mai sulla destinazione. Lo
si capiva dalla sicurezza con cui s’imbarcava, subito dopo l’attracco, come se
conoscesse a memoria gli orari. Non voglio azzardare nessuna ipotesi
parascientifica in proposito. La vita di Jack non è riducibile a comportamenti
da laboratorio.
Non era uno di quei cani che alle Eolie te
li ritrovi sempre sui moli, scodinzoloni e uggiolanti, o famelici, in cerca di
qualsiasi cosa da masticare e da ingoiare in fretta. E quindi sempre in
movimento. Per quasi tutta la giornata, Jack dormiva sotto il ponte di Marina
Corta, a Lipari, di fronte alle barche che dondolano in attesa dei turisti. Era
troppo superiore agli altri cani per imbrancarsi con loro e mostrare cordialità
o animazione. Ma anche nel sonno, il suo naso lavorava per lui come fosse
un’entità indipendente, mandando al cervello segnali molto particolari su quello
che stava succedendo in un raggio non disprezzabile. Una volta qualcuno,
davanti ad alcuni amici scettici, avvicinò una radio accesa al suo corpaccio
muscoloso e immobile, steso sulla rena. Gli occhi di Jack rimasero chiusi, non
un solo muscolo vibrò. Ma quando gli fecero ballonzolare sul suo testone una
salsiccia calda comprata dal rosticcere, lo scatto per agguantarla e farla
sparire fu il movimento più fulmineo che si fosse mai visto.
Aveva sempre vissuto da quelle parti: il
sottoponte, la piazza di Marina Corta, gli uffici delle ditte di navigazione, i
due pontili di attracco. E si può dire che fosse nato senza padrone. Noi
crediamo stupidamente che nei cani la ricerca di un padrone sia un segno di
sottomissione, indice di una natura prona e servile. Mentre loro sono spinti
dal divertimento e dal piacere di iniziare una relazione che durerà tutta la
vita. Il padrone può essere un personaggio umanamente interessante e
volenteroso, ma dal punto di vista animale molto più interessante è la libertà
di esplorare, di fiutare nuovi odori e di andare a zonzo. Jack come ho detto,
non aveva padroni. E gli piaceva enormemente andare a zonzo, quando non
dormiva. Da buon cane siciliano, passava da un estremo all’altro.
Non tornava da qualcuno, ma in un certo senso
tornava a casa. Le storie di cani che tornano a casa da soli, percorrendo
centinaia di chilometri, sono innumerevoli. Studiosi tedeschi, grandi esperti
in comportamenti canini, hanno dei dubbi che un fiuto extra, insieme con la
capacità di memorizzare il paesaggio e le strade, siano sufficienti a spiegare
questi viaggi prodigiosi. Secondo loro ci deve essere qualcos’altro, un fattore
sconosciuto, come un radar che li orienti, simile a quello che hanno i
pipistrelli. Un apparato che non funzionerebbe come le onde radio, ma
servendosi di vibrazioni legate in qualche modo al sentimento. Onde d’amore, di
struggente nostalgia per il focolare.
E’ un interpretazione poetica, poco
convincente perché fondata sul sentimentalismo degli uomini. I cani non sono
sentimentali e Jack lo era meno di tutti. Quello che noi chiamiamo amore tra
cane e uomo è qualcosa di primario che appartiene al caso. Il cane non
s’innamora delle tue qualità, perché sei bello, simpatico, intelligente o
buono. Succede che inciampa sui tuoi piedi e per questa ragione nasce un legame
che non ha paragoni per intensità, nettezza e assenza di sfumature. Da questo
legame ne ricava pura gioia o pura amarezza. Dipende da te. Lui non conosce i
gradi intermedi.
Forse i cani tornano perché sentono il bisogno
di ricostituire un equilibrio di rapporti che hanno perso. Ma questo non spiega
nulla sul come riescano a tornare. La singolarità di Jack stava nel fatto che
viaggiava per viaggiare e dimostrava la disinvoltura del vero viaggiatore che
non dà molta importanza ai ritardi o ai prosaici inconvenienti che
infastidiscono il turista. Io l’ho conosciuto tardi, un anno prima che morisse,
intravisto la prima volta più che visto nella solita piazza di Marina Corta.
Non ero rimasto incantato dal suo aspetto di duro da strada tra il mastino e il
bulldog, razze che non sono tra le mie favorite. Si muoveva lentamente, come
trattenesse la sua potenza, con l’andamento dinoccolato e consapevole che
avevano i pugili di una volta, senza dare occhiate né a destra né a sinistra.
Sembrava che non s’interessasse a nulla, ma era solo una finta. Tutti sapevano
che controllava perfettamente la sua zona e che aveva dei riflessi da bestia
abituata allo scontro improvviso.
Cominciai a raccogliere informazioni più
complete su di lui qualche tempo dopo la sua morte stoica, risalendo
all’indietro lungo la sua breve, inimitabile vita canina. Il mio informatore è
stato il mio amico Luigi, il più entusiasta spacciatore di innocue frottole che
allietavano le dolci serate di settembre, quando i caffè all’aperto tornavano a
essere il tranquillo luogo d’incontro di Lipari. Luigi portava le stampelle, ma
pochi minuti dopo averlo conosciuto, ti dimenticavi che gli servivano per
sostenerlo. Si muoveva con l’agilità di un acrobata, con estrema leggerezza,
come se fosse sempre in sospensione e mentre volteggiava intorno a te, salutava
nuovi venuti, fermava ragazze sconosciute che stavano attraversando la piazza e
continuava a raccontarti fatti inauditi che erano successi solo a lui, agitando
in aria quei bastoni di ferro, diventati nelle sue mani uno strumento indispensabile
per la narrazione.
Ma su Jack, si sentiva che non stava
inventando. Doveva aver amato molto questo cane, credo per il suo spirito
d’indipendenza e perché si era fatto
strada superando lo svantaggio iniziale di non avere un padrone e
trasformandolo in una ragione di forza, esattamente come lui. Quando chiamai
Jack un cane randagio, mi rispose con tono sarcastico, assolutamente raro, che
quello era stato un cane che si poteva definire in numerosi modi. Ma non si
poteva chiamare randagio chi girava per piacere e non per necessità.
Era stato un pescatore di Lipari a
trovarlo, ancora cucciolo, ma già sicuro di sé. Il pescatore aveva una moglie –
sarebbe più esatto dire che quella donna aveva anche un marito. Come tutte le
eoliane, era allenata a mantenere la famiglia, in assenza di uomini sempre in
mare o emigrati in Australia. Per lei un cucciolo era solo un fastidio, un
animale che sporcava, di nessuna utilità. Jack venne portato a Marina Corta e
lasciato sotto il ponte, dove c’è la rimessa invernale delle barche. Gli
etologi hanno dato l’efficace nome di imprinting a quel fenomeno di impressione
indelebile che si stampa nell’anima vergine degli animali appena nati. Una
visione di qualcuno, breve ma intensissima, e il cucciolo è condizionato per
tutta la vita. L’anima di Jack, che aveva quasi un mese, rimase impressionata
non da un essere vivente, ma da un paesaggio, in cui il mare e i suoi
illimitati confini avevano una parte dominante. Così la pensava Luigi, anche se
non aveva mai sentito parlare di imprinting – ma il concetto era lo stesso.
L’immagine dell’isolotto con i due moli, collegato con l’isola da tempo
immemorabile, le ombre delle barche dei pescatori di totani che salpavano di
notte, gli aliscafi che si alzavano e si afflosciavano sui pattini al momento
della manovra, la rocca che guardava il mare e dominava la piazza, e le
bellezze lontane che s’intuivano dietro un orizzonte bluastro: tutto questo
venne assorbito in qualche frazione di minuto. Quella era la sua casa e non ci
fu posto per niente altro.
Quando raggiunse la robustezza che gli
competeva, Jack salì per primo su una passerella gettata sul pontile da un
marinaio e andò a sedersi a poppa, all’aperto tra i bagagli dei turisti. Per
qualche settimana venne aiutato da un equivoco che la sua tranquilla sicurezza
e intuitiva conoscenza della pianta dei battelli rendeva possibile. I marinai
pensavano che fosse un cane ben educato di qualche passeggero. I passeggeri
amanti dei cani credevano di accarezzare il cane del capitano e quelli non
amanti dei cani lo ignoravano. Qualcuno lo prese per un ausiliare della Guardia
di Finanza, anche se non andava mai ad annusare in giro, comportandosi con
riservatezza. Perché non dava mai confidenza. E all’arrivo scivolava via, forse
un po’ troppo in fretta, prima che si accorgessero che non aveva padrone.
All’inizio seguiva il variegato circuito
delle Eolie. L’unico paese dove non ha mai posato le sue zampone dinoccolate è
Ginostra. Qui lo sbarco si svolge con il rollo – la barca che si accosta
ondeggiando al battello, messosi controvento, mentre il marinaio aiuta i
viaggiatori a scendere lungo una scaletta – e prendere in braccio Jack sarebbe
stata una manovra impossibile. Ma si presentava con regolarità in tutti gli
altri attracchi e con regolarità ripartiva. La scoperta della sua vocazione di
cane marinaio da parte delle autorità competenti era arrivata troppo tardi
perché le medesime autorità fossero in grado di prendere dei provvedimenti cosiddetti
restrittivi, come qualcuno aveva invocato. In un raro lampo di intuizione e di
buon senso, si convinsero che un cane così tranquillo, che non dava fastidio a
nessuno e che si comportava meglio di molti passeggeri, poteva rappresentare
una curiosità, a uso dei turisti. Non erano tutti amanti dei cani?
Raccontandomi i vagabondaggi di Jack, Luigi
disse che l’aveva incontrato più di una volta in compagnia di qualche cagnetta,
anche in località all’interno delle isole. E che l’area delle sue incursioni si
era estesa fino a Napoli, città in cui aveva sicuramente qualche stretta
conoscenza. Dunque viaggiava anche di notte, per lunghi percorsi, in una nave
sgangherata, con delle cabine di prima classe allegre come le stanze di un
riformatorio, dove per puro sadismo servivano panini fetenti. Ma dove si
facevano scrupolo di essere severi con i cani, allontanati dai padroni –
“motivi d’igiene” spiegavano i commissari – e rinchiusi in minuscoli gabbiotti
inventati da un torturatore. Come riusciva Jack a mantenere il suo status di
libero clandestino?
Forse la sua disinvoltura e il suo spirito
indipendente dovevano colpire tutti quelli che incontrava. Si capiva subito che
era un cane fuori della norma e che aveva comportamenti non omologhi a quelli
degli altri esseri della sua stirpe. Era capace di cambiare atteggiamento se
giudicava che l’ambiente potesse essere potenzialmente ostile, cercando di
passare inosservato e sempre guardando apaticamente nel vuoto, come se stesse
interpretando la parte di un soldato leggermente traumatizzato dalla guerra.
Era una delle sue figurazioni più riuscite. Ma non si spingeva mai a leccare le
mani che lo carezzavano, come avrebbe fatto un qualunque suo simile. Non era il
solito fedele Fido, che sta dalla tua nella prosperità e nella miseria, nella
salute e nella malattia e ti leccherà sempre la mano anche quando questa è
vuota.
Per quanto lungo fosse il viaggio, alla
fine rientrava sempre nel suo territorio, la piazza di Marina Corta, di nuovo
un campione di placida insolenza, avendo in eccesso quella che si chiama
padronanza di sé. Non tollerava intrusioni da parte di qualsiasi animale ed era
veloce con le zanne. Sapeva però distinguere un semplice quattro zampe – e che
cos’è l’intelligenza se non un continuo distinguo? – da un quattro zampe con
una potente protezione e quando scendeva dalla rocca Jim, un cagnone bolso di
razza moscia, accompagnato dal padrone, l’ex sindaco di Lipari, Jack si voltava
dall’altra parte. Lo lasciava passare ma non lo voleva vedere.
Un giorno scomparve, ma nessuno se ne
preoccupò. Se c’era un cane che sapeva badare a se stesso, questo era Jack, fin
dai tempi in cui i marinai e i pescatori gli lasciavano avanzi di pesce e pezzi
di polipo anche gustosi, che lui nemmeno toccava. Quando ricomparve in piazza,
era dimagrito di sei o sette chili, barcollava e gli era venuto uno sgradevole
rictus, che gli faceva digrignare o mostrare i denti a intervalli regolari,
senza motivo. Fu chiamato un veterinario che solo dopo una settimana riuscì a
visitarlo, perché il cane, diventato quasi scheletrico, non voleva farsi
toccare. Il veterinario disse che con quel male che aveva dentro doveva essere
già morto e tutti si convinsero allora che se la sarebbe cavata. Invece Jack
aveva un altro programma e un mattino di agosto, già umido e senza speranza, si
tuffò in acqua da uno dei due moli – nuotava benissimo – allontanandosi per una
cinquantina di metri. Poi ruotò la testa verso la piazza, come il periscopio di
un sommergibile e si lasciò affondare. Ho chiesto a Luigi se si ricordava un
caso simile a questo. Mi rispose che un emigrato, molti anni prima, aveva
portato dal Brasile un pappagallo per il figlio piccolo. Quando il ragazzo
morì, il pappagallo, che non aveva mai volato, infilò la finestra, perdendosi
nel mare e venne ritrovato sulla spiaggia delle cave di pomice con un’ala già
divorata dai granchi.
Tratto da: “il cane che andava per mare”
ed: neri pozza 2000
Chi, possedendo un cane, può negare la sua superiorità morale rispetto all'uomo?
RispondiEliminaCommuove questo brano che hai postato, caro Baldo.
Grazie, credo che cercherò il libro :)
Ciao!
Lara