di lanfranco caminiti
Salvatore Impallomeni, 'u zu Turuzzu, mi aspetta davanti al bar, nella piazza del quartiere. E' qui che ha voluto darmi appuntamento, quando gli ho telefonato dicendo che stavo arrivando a Palermo. “Ci voleva Miccichè, perché tornassi”, mi ha detto al telefono con una punta di sarcasmo e di rimprovero, come se questo viaggio non potesse mai giustificare la mia lunga assenza nei suoi confronti. Non ha torto, anche se io avrei mille ragioni da raccontare.
Pago il taxi, raccolgo le mie poche carabattole e mi muovo tra i tavolini all'aperto cercando zu Turuzzu. E' una sera di fine novembre, ma c'è cammarìa di scirocco - c'è sempre cammarìa di scirocco - e devo per prima cosa allenare il respiro, inspirare lento, riconquistare il ritmo. Dopo due passi sono già stanco, la testa sfarfalla e ho come un mancamento: deve essere l'emozione: davvero, ho amato Palermo come nessun'altra città al mondo e il tempo non ha fatto che ingigantire questo sentimento, forse pure cullando un'illusione, autoalimentandosi del proprio sogno, i propri vent'anni, le utopie, la forza dei muscoli, la propria pulizia. Per tutto il viaggio mi sono rimpromesso di non cascarci, di non diventare sentimentale, di non lasciarmi sopraffare dalla retorica da cartolina illustrata degli anni settanta. L'intenzione è quella di incontrare vecchi amici, facce nuove, cercare di capire che succede, che è successo, senza fronzoli, asciutto asciutto. Mi sono pure fatto un decalogo, in aereo: non cercare il gelo di melone, non andare alla Villa degli Inglesi, non avvicinarsi a Mondello e non mangiare ricci, non passare dai Quattro Canti e non fermarsi incantati a far nulla a piazza delle Vergogne, non prendere la mezza pasta carrittera alla Ucciria, non entrare alla libreria Flaccovio, non andare allo Zen, non visitare quel che resta dei Cantieri navali, non piazzarsi davanti alla porta dell'Ucciardone e, soprattutto, non alzare mai gli occhi verso Monte Pellegrino.
Non riesco a trovare la faccia di zu Turuzzu, c'è tanta gente seduta ai tavolini, bevono caffè, sorseggiano spremute, mangiano cannoli, fumano e chiaccherano a voce alta, finché mi sento tuppuliare sulla spalla e non faccio in tempo a girarmi che due braccia vigorose mi stanno stritolando in un abbraccio “Arrivasti. Finalmenti.” Non dice altro, ma mi stringe a lungo, caldo, mi bacia, di qua e di là. Poi, mi fissa negli occhi, muto, e mi tira per il braccio.
Mentre mi guida al suo tavolo, aprendo la folla come Mosé il mar Rosso, lo guardo: è ancora lui, 'u zu Turuzzu. Lo chiamavano così che aveva appena trent'anni, come segno di rispetto, gli operai dei Cantieri navali, anche i più anziani, quelli che erano lì da una vita ma che nella sua determinazione ci credevano, figurarsi i più giovani: per questi era un mito. Zu Turuzzu poteva fermare da solo i Cantieri navali, la mattina ai cancelli gli operai entrando si chiedevano l'un l'altro “chi dissi ppi oggi, 'u zu Turuzzu?”, “neenti dissi”, “allura, si travagghia”; poteva dire “oggi non si lavora, si sciopera” e lì non si lavorava, si scioperava; oppure dire “oggi fermiamo la città” e si usciva tutti dai Cantieri e si andava verso viale della Libertà a fermare la città; poteva sedersi al tavolo delle trattative e fare “nzù” con la testa e quello voleva dire che era “nzù”, che non bastava. Che bisognava mettere sul piatto più assunzioni, meno straordinari, più sicurezza sul lavoro, più soldini in busta paga. “Zu Turuzzu dissi nzù”: bastava questo, tutti fermi, tutti fuori, a sciamare verso il Politeama, piazza Massimo, via Maqueda, con quelle tute blu così fuori luogo in quella città. La classe operaia. Cazzo, aria fresca.
E' un tavolino un po' defilato quello dove mi conduce, poggio le mie cose su una sedia d'avanzo, ho già tolto l'impermeabile che tenevo al braccio, ma levo pure la giacca - c'è cammarìa di scirocco, c'è sempre cammarìa di scirocco. Il tavolino sembra piccolo, tutto sembra piccolo quando ci sta vicino zu Turuzzu: è un ciclope d'uomo, con quel nome che tenta invano di ridimensionarlo e pure vuole ancora più ingigantirlo, che persino la tuta gli dovevano fare apposta ai Cantieri, ma non bastava e portava sempre le caviglie scoperte ma non se la toglieva mai, io almeno non me lo ricordo mai senza tuta. Ora è senza tuta, “in borghese” come si diceva un tempo dei militari senza divisa. Muove quelle sue manone per chiamare la cameriera, carina da morire con un vulcano di ricci in testa e una minigonna e due gambe da schianto e un petto che ci può atterrare un bombardiere americano, ho sete, voglio bere, ho la gola secca.
Zu Turuzzu si informa sulla mia collocazione, se ho dove dormire, la sua casa è a disposizione ma non insiste, sa che ho le mie fissazioni, quanto tempo penso di trattenermi, se ho bisogno di un'automobile per muovermi, poi mi chiede come sta la mia famiglia, arriva il suo caffè e la mia spremuta d'arancia, la ragazza ha proprio due gambe da schianto, mi rilasso, la tovaglia è bella, e pure la caraffa dell'acqua, i tovaglioli, i bicchieri, i particolari sono molto curati, qui davvero uno capisce che sta al bar, si sente “un signore” anche solo per mezz'ora, non come a Roma che stanno sempre in piedi a prendersi di corsa il maritozzo e il tramezzino, scambiamo chiacchere così, cosa faccio adesso, vado a letto presto, per scaldare i motori, lo sappiamo. “Picchì vinisti?”
Non lo so, io non lo so perché sono venuto. E' che m'ha preso come uno struggimento, un senso di colpa, un desiderio di smettere, una voglia di ricominciare, un bisogno di rannicchiarmi da qualche parte, di farmi piccolo piccolo, di prendere a schiaffi la gente, tante cose, troppe cose: non lo so, io non lo so perché sono venuto. Glielo dico tutto d'un fiato, che quasi mi stanco. Mi guarda.
“Picchì vinisti?”
E vabbè, te la sei cercata. “Per Miccichè. Per quel grandissimo cornuto di Miccichè. Per questi bastardissimi minchioni di Cuffaro, Cammarata e via discorrendo. Bastardissimi loro e ancora più bastardissimi chi li ha votati. Garrusi e garrusissimi. Fitusi e fitusissimi. Fango dell'umanità. Per questo fottutissimo motivo sono venuto. Per quel 61 a 0 delle elezioni politiche, per le regionali, per le comunali, perché si sono preso tutto il cocuzzaro, perché vorrei che qualcuno togliesse il tappo a quest'isola di merda e così affonda finalmente. Ecco perché sono venuto. E tu mi devi dare conto.”
Ho strillato e nella foga mi sono pure rovesciato addosso un po' d'aranciata e per un attimo c'è stato tutto un silenzio attorno, o almeno così m'è sembrato, che tutti guardassero verso di noi; poi zu Turuzzu ha mosso una di quelle sue mani nell'aria - “facitivi i cazzi vostri” - e la chiacchera è ripresa, chi beveva il caffè, chi sorbiva la sua spremuta, chi mangiava il cannolo, chi fumava o leggeva il giornale.
“Io non votai. Io, sono dec'anni che non voto.”
Come se questo chiudesse la partita, l'argomento, la discussione. “Zu Turuzzu dissi nzù”, non votò. Punto. La primavera di Palermo, Leoluca Orlando e Letizia Battaglia, Boris Giuliano, Falcone e Borsellino, Ciancimino e l'arcivescovo di Monreale, il liceo Meli, gli edili, la mafia, Riina, Buscetta, Badalamenti, Andreotti, i fratelli Salvo, Michele Sindona, i processi, le stragi, i processi, le stragi, l'Ora e il Giornale di Sicilia, l'esercito agli angoli delle strade come in una guerra civile, i giudici ragazzini, le talpe, via Pipitone, I Siciliani, Chinnici, il cardinale Pappalardo, la vasca con l'acido, Siino e il tavolo degli affari, i Costanzo, Contrada, le grandi imprese del nord, gli schiaffi a Parisi che se li prese al posto di Scalfaro, i servizi segreti, le vedove, le donne, da una parte e dall'altra, “io non vi perdono”, Rosaria, che ogni volta che lo vedo quel filmato ci piango, “io non vi perdono”, detto con il proprio strazio e le proprie indomite lacrime, lo strazio e le indomite lacrime di una terra, c'è tutto lì, “io non vi perdono”. Via, tutto via. Spinto nell'aria da una di quelle sue mani. Fuff. Non votò. E' dieci anni che non votò.
“Io me ne fotto. Dei Miccichè, dei Cuffaro, dei Cammarata, e di tutti i gran figli di bottanissima che li circondano. Se ne fotteva mio nonno. E se ne fotteva mio patre. Pure io me ne fotto, ora.” - aggiunge.
Io lo guardo. Dev'essere diventato stupido, penso. Dev'essere diventato stupido da quando gli hanno tolto i Cantieri, la fabbrica, i compagni, il sindacato, il suo ruolo. Dev'essere diventato stupido a furia di frustrazioni, di speranze deluse, di compromessi, di inciuci, di “guardia” alzata e abbassata, di leghe delle cooperative e di appalti, di magistrati salvapatria. Tutti siamo diventati stupidi, ma lui più degli altri. Anzi, no, io più di tutti, che sono arrivato fin qua a cercare non so bene che, per capire non so bene che, per capire me stesso, e mi ritrovo davanti un rimminchionito coi suoi rancori e il suo cinismo. Pure io me ne fotto. Di lui. Ma vedi un po' d'andartene affanculo, Salvatore Impallomeni. Lo penso, non lo dico, perché quello è pure capace che mi gira una sberla e fa male. Non potrò mai mancargli di rispetto, lui non mi ha mai mancato di rispetto, nemmeno nei momenti più duri, quando era facile per iene e sciacalli mancarmi di rispetto. Lo dico, a muso duro, guardandolo negli occhi. Ma vedi un po' d'andartene affanculo, zu Turuzzu.
Stavolta il silenzio attorno è vero, non è solo un'impressione, stavolta tutti ci guardano, i bicchieri sono a mezz'aria e le tazzine pure, solo quella minigonna continua a girare per i tavoli, quel vulcano di ricci: lui muove una di quelle sue mani nell'aria - “facitivi i cazzi vostri” - e la chiacchera riprende, chi beve il caffè, chi la sua spremuta, chi mangia il cannolo, chi fuma o legge il giornale.
“Tu non capisci neenti.”
O sì, Turuzzu, io non capisco neenti, hai proprio ragione. Io non capisco perché Berlusconi stravince in questo cazzo di isola, perché non esiste più una sinistra, perché i movimenti fanno troppo poco di fronte a questa guerra - e qui c'è stata la lunga battaglia di Comiso, qualcosa che ha segnato davvero una svolta. Non capisco cosa possano chiedere i siciliani a uno come Cuffaro che non abbiano già chiesto mille e mille volte ad altri Cuffaro, cosa possano aspettarsi da uno come Miccichè che non abbiano già aspettato mille e mille volte da altri Miccichè. Io sono proprio indignato, io strangolerei con le mie mani chi sorride alla prima dichiarazione del nuovo sindaco: “Il problema di Palermo è 'u pitittu”. 'U pitittu, la fame. Il problema di Palermo è 'u pitittu. Non il lavoro, non la dignità, non la mafia e la corruzione dello Stato, non la democrazia, non i diritti, non le case, non le scuole, non la salute, ma 'u pitittu. Roba da plebe. Corpi da riempire solo di sbobba. Come fossimo nel Seicento, coi vicerè. El illustrissimo senor Diegus Cammarata y Cuffaro y Miccichè dicìo que el problema de Panormus es el petitto. Olè. Che si distribuiscano pane e panelle. Arruffapopoli da baraccone! E lo votano, alla Zisa e a Ballarò, a via Marina e a via Notarbartolo, alla Noce e a viale Lazio. Non capisco perché succede questo. Non capisco perché ce ne siamo andati, non capisco più dove siamo andati, io, te. Dove siano andati tutti. Miserabili, accattoni. Siciliani. Come si può! Ma chi ci vive in quest'isola? Mostri? Mostri come quelli che il principe di Palagonia aveva disseminato nella sua villa, altro che incubi, quello disegnava le fattezze vere dei compaesani, gobbe immonde, corna plurime, zoccoli di capra ai piedi, code a fuoriuscire dai pastrani, questo siete. Questo siamo. Scolpiti pari pari. Altro che gattopardesche filosofie della minchia. E, per favore, nessuno mi dica che è tutto normale quello che sta succedendo qui. Non c'è stato niente di normale negli ultimi trent'anni in Sicilia. E se è per quello, neanche prima. Niente è mai normale per come succede qui. Dove sembra che nulla mai dipenda dagli uomini, dove tutto dipende dagli uomini.
Mi sento pure patetico, mi lascia sfogare, poi “Ma tu daveru fai?”
Sì, faccio davvero Turuzzu. Io non ne posso più. Ma non lo vedi come trattano il lavoro? Lo dico proprio a te. Che sembra stiano sfiancando il toro nell'arena, e vai con le gabbie salariali, una banderilla, olè, il Trattamento di fine rapporto, altra banderilla, olè, e vai con l'articolo 18 sui licenziamenti, ancora una banderilla, olè, a perdere sangue, a indebolirti, e il pubblico a mangiare panelle, cazzilli e pane cca meusa, olè, aspettando il matador per la stoccata finale, che poi ci tagliano pure le orecchie, olè. Non lo so, Turuzzu, non lo so se faccio davvero, ma c'ho, qui nella testa, tutto uno gnommero che non riesco più a dormire: ma tu ci riesci a dormire?
“Pocu, ogni tantu.”
Ho cambiato idea, non voglio più restare, non voglio più incontrare nessuno, dei vecchi amici, di giovani facce, di gente qualunque. Voglio andare via, presto, subito. Me ne fotto. Pure io me ne fotto. Che vadano a farsi fottere tutti. E' stato solo uno sciocco impulso sentimentale, un frainteso bisogno d'astrazione per analizzare tendenze e controtendenze, come se fosse qui il problema e non dentro di sé, quel lento lasciarsi scivolare le cose tra le dita.
Sull'aereo di ritorno. Sono svuotato, sto peggio di prima, cazzo, e a conti fatti non ho neanche mangiato il gelo di melone. Porca puttana, ci devo proprio tornare allora. Chissà se lo fanno a quel bar. Che magari la prossima volta ci domando come si chiama a dda picciuttedda tutta riccia. Quando arrivo a Roma e scendo dall'aereo - curioso - c'è cammarìa di scirocco.
Roma, 29 novembre 2001
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