maria, angelina e rosalia di girolamo

lunedì 7 maggio 2012

la donna alla grata




Passai davanti a una fontanella pubblica alla quale stava bevendo un ragazzo. Piegai a sinistra e udii una voce sommessa, tenue e delicata che veniva dall’alto. Levai lo sguardo verso la casa di fronte e vidi, all’altezza del primo piano, il volto di una giovane donna dietro una fitta grata. La giovane era senza velo e scura di carnagione, e teneva il volto vicinissimo alla grata. Disse molte frasi che scorrevano leggere, e ognuna di quelle frasi era fatta di parole carezzevoli. Non riuscivo a capire perché mai quella donna non portasse il velo. Teneva la testa un po’ chinata e mi accorsi che parlava con me. La sua voce non si alzava mai di tono, rimase sommessa e uniforme; c’era una grande tenerezza in quella voce, come se tenesse la mia testa tra le braccia. Ma non vedevo le mani, non mostrava altro che il volto, forse le mani erano legate da qualche parte. La stanza dove lei si trovava era buia, sulla strada dove stavo io, invece, il sole splendeva abbagliante. Le sue parole sembravano scorrere da una fontana e traboccavano una nell’altra, ed io, che pure non avevo mai udito dei vezzeggiativi in quella lingua, mi accorsi che lo erano.
Volevo avvicinarmi di più per vedere la porta della casa da cui veniva la voce, ma temevo che un mio movimento la scacciasse come un uccello. Che cosa avrei fatto se si fosse taciuta? Cercai di essere come la voce, delicato e sommesso, e camminai come non avevo mai camminato. Mi riuscì di non spaventarla. Sentivo la voce anche quando fui vicinissimo alla casa, tanto da non poter più vedere la testa vicino alla grata. Lo stretto edificio faceva l’effetto di una torre in rovina. Si poteva guardare in una breccia del muro, da dove erano cadute delle pietre. La porta, fatta di povere assi e priva di qualsiasi ornamento, era stata fissata con del filo di ferro e a quel che sembrava non veniva aperta molto spesso. Non era una casa accogliente, non si poteva entrarci, dentro era buio e certamente tutto in rovina. Subito dietro l’angolo si apriva un vicolo cieco, ma era immoto e silenzioso, ed io non vidi nessuno a cui avrei potuto domandare qualcosa. Neppure nel vicolo smarrii il carezzevole flusso di quella voce, svoltato l’angolo aveva un suono come di lontanissimo mormorio. Tornai indietro, mi misi di nuovo a una certa distanza dalla casa e alzai lo sguardo, ed ecco rividi l’ovale di quel volto, vicinissimo alla grata, e le labbra che si muovevano in parole di tenerezza.
Mi sembrò che il loro suono fosse un poco mutato, vi sentivo dentro una supplica incerta, come se la donna volesse dirmi: non andartene. Forse aveva pensato che me ne fossi andato per sempre quando ero scomparso per esaminare la casa e il portone. Adesso ero di nuovo lì e dovevo restare. Come posso descrivervi l’effetto che suscita il volto di una donna senza velo, che abbassa lo sguardo dall’alto di una finestra, in una città come questa, in un vicolo come questo? Sono poche le finestre che danno sulle strade e non si vede mai nessuno affacciarsi fuori. Le case sono come muri, e si ha spesso l’impressione di camminare a lungo tra i muri, pur sapendo che sono case: si vedono le porte, e pochissime finestre che non vengono usate. Con le donne accade qualcosa di analogo: quando esse camminano come sacchi informi lungo i vicoli, non si scorge né si intuisce nulla, e presto ci si annoia di occuparsene e di dover ricorrere all’immaginazione. Si rinuncia alle donne. Ma si rinuncia a malincuore; così, quando poi una donna ti appare alla finestra e addirittura ti parla, e china leggermente il capo e non va più via, come se da sempre ti avesse atteso qui, una che poi continua a parlare quando le volti le spalle e ti allontani piano piano, una che parlerà, non importa se tu ci sei oppure no, che sempre ti parlerà, che parlerà sempre a tutti, quella donna, allora, diventa un miracolo, un’apparizione, e sei propenso a considerarla più importante di tutto ciò che pure varrebbe la pena di essere visto in questa città.
Mi sarei fermato lì molto più a lungo, ma non si può dire che quello fosse un quartiere tranquillo. Mi venivano incontro donne velate, che non si fermavano neanche un istante davanti alla loro compagna lassù, vicino alla grata. Passavano davanti alla casa a forma di torre come se nessuno parlasse. Non si fermavano, non guardavano in alto. Si avvicinavano alla casa con passi uniformi e, proprio sotto la finestra di lei che parlava, svoltavano nel vicolo dove io mi trovavo. Ma sentivo bene che mi lanciavano occhiate di disapprovazione. Che ci facevo qui? Perché stavo fermo in questo posto? Perché guardavo fisso in alto?
Sopraggiunse un gruppo di scolari. Andavano giocando e scherzando per la loro strada, comportandosi come se non udissero il suono che veniva dall’alto. Mi osservarono: io ero per loro più strano di quella donna senza velo. Mi vergognai un po’ di stare lì fermo con lo sguardo fisso. Sentivo però che andandomene avrei deluso quel volto accanto alla grata; le sue parole seguitavano a scorrere come un rivo di melodie, canti di uccelli. Ma in mezzo alle parole risuonavano ora i richiami squillanti dei bambini, che solo lentamente si allontanavano. Essi avevano con sé le loro cartelle ed erano appena usciti da scuola; cercavano di allungare il tragitto per tornare a casa e inventavano dei piccoli giochi: una delle regole consisteva nel saltellare su e giù per la strada. Avanzavano perciò a passo di lumaca, e mi inflissero il supplizio di starli a sentire.
Si fermò vicino a me una donna con accanto un bambino piccolissimo. Doveva essersi avvicinata da dietro perché non me n’ero accorto. Si fermò per poco; mi lanciò un’occhiataccia; oltre il velo riconobbi i lineamenti di una vecchia. Afferrò il bambino come se la mia presenza lo minacciasse e andò via ciabattando, senza degnarmi di una sola parola. Mi sentii a disagio, lasciai il mio posto e cominciai piano piano a seguirla. La vecchia scese lungo la strada costeggiando alcune case e poi imboccò una traversa. Quando raggiunsi l’angolo dietro al quale lei era scomparsa, vidi in fondo a un vicolo cieco la cupola di una piccola qubba. In questo paese chiamano così i sepolcri dei santi presso i quali si recano in pellegrinaggio i fedeli con i loro voti. La vecchia era ferma davanti al portone chiuso della qubba e sollevò in alto il piccolissimo bambino.Gli premette la bocca contro un oggetto che io, dal mio punto di osservazione, non fui in grado di discernere. Ripetè quel gesto più volte, poi mise il bimbo a terra, gli prese la manina e si voltò per andarsene. Una volta raggiunto l’angolo del vicolo, dovette nuovamente passare davanti a me, ma questa volta neanche mi guardò più male e riprese la strada dalla quale eravamo venuti.
Io mi avvicinai alla qubba e vidi sul portone di legno, a mezz’altezza, un anello intorno al quale erano avvolti alcuni vecchi stracci. Erano questi che il bambino aveva baciato. Tutto si era svolto nel massimo silenzio, e nel mio sgomento non mi ero accorto che avevo alle spalle gli scolari che mi stavano osservando. Ad un tratto udii la loro chiara risata, tre o quattro ragazzini si lanciarono sulla porta della qubba, afferrarono l’anello e si misero a baciare i vecchi stracci. Ridendo forte ripeterono la procedura da ogni lato. Uno si attaccò a destra dell’anello, un altro a sinistra, e i loro baci continuarono a susseguirsi con schiocchi rumorosi. Di lì a breve furono cacciati via da altri ragazzini che gli stavano dietro. Ciascuno di essi voleva mostrarmi come bisognava fare; forse si aspettavano che io li imitassi. Erano tutti bambini puliti e ben tenuti, certamente venivano lavati più di una volta al giorno. Gli stracci, al contrario, parevano sporchissimi, come se fossero serviti per lavare la strada. Passavano per brandelli del santo stesso, e trattenevano qualcosa della sua santità ad uso dei fedeli.
I ragazzi, dopo averli baciati a sazietà, mi raggiunsero e si misero in circolo attorno a me. Uno mi colpì per il suo viso intelligente e mi accorsi che avrebbe volentieri parlato con me. Gli domandai in francese se sapeva leggere. Rispose molto educatamente: “ Oui, monsieur “. Io portavo un libro sottobraccio, e aprendolo glielo porsi; egli lesse lentamente ma senza errori alcune frasi in francese. Il libro era un’opera sulle usanze religiose dei marocchini, e nel punto dove l’avevo aperto trattava della venerazione dei santi e delle loro qubba. Forse fu un caso o forse anche no, comunque il ragazzo mi stava leggendo ad alta voce ciò che poco prima mi aveva mostrato insieme ai suoi compagni. Ma non diede a vedere di essersi accorto di questo, forse era talmente preso dalla lettura che non afferrava affatto il senso delle parole. Lo lodai, ed egli accolse il mio apprezzamento con la dignità di un adulto. A me piacque moltissimo, tanto che senza volere lo misi in relazione con la donna della grata.
Feci segno in direzione della casa in rovina e domandai: “ Conosci quella donna che sta lassù, vicino alla grata? “
“ Oui, monsieur “ disse, e si fece serissimo in volto.
“ Elle est malade? “ domandai ancora.
“ Elle est très malade, monsieur “.
Quel “ molto “ che dava più forza alla mia domanda, suonò come un lamento, ma un lamento per qualcosa a cui quel ragazzino si era totalmente rassegnato. Avrà avuto nove anni, ma il suo aspetto ora era quello di chi ha vissuto già vent’anni con una malata grave, sapendo benissimo come bisogna comportarsi in questi casi.
“ Elle est malade dans sa tete, n’est-ce pas? “
“ Oui, monsieur, dans sa tete”. Fece un cenno col capo, quando disse “ in testa “, ma invece di indicare la propria testa, indicò quella di un altro ragazzo che era davvero di una bellezza speciale: aveva un viso lungo, pallido, con grandi occhi spalancati, neri e tristissimi. Nessuno dei bambini rise. Stettero lì in silenzio. Il loro umore era mutato di colpo quando io avevo cominciato a parlare della donna alla grata.


Elias Canetti  le voci di Marrakech  ed Adelphi 1991


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