“La Villa dei Mostri”
a Bagheria
“La Villa dei Mostri” a Bagheria
Il “bestiario” dipinto dal principe di Palagonia
Reportage di Luca Gabriele
Il “bestiario” dipinto dal principe di Palagonia
Reportage di Luca Gabriele
«Abbiamo sciupato una giornata
dietro alle pazzie del Principe di Palagonia». Così
appuntò Goethe nel suo taccuino del “Viaggio in Italia”. Una
giornata sciupata dietro ai capricci e alla demenza del Principe di Palagonia e
la sua dimora dell’assurdo. Ma chi era il Principe di Palagonia? Dove si
trovava la sua dimora dell’impossibile?
Esiste ancora “la
villa dei mostri”, annegata oggi in altre assurdità moderne, quelle
delle distese di cemento che la circondano come una cintura di cilicio. Si
trova a Bagheria, meravigliosa rocca del barocco siciliano che un tempo aveva
vissuto degli sfarzi delle nobili famiglie palermitane che qui stabilirono le
loro residenze di villeggiatura. Oggi ridotta a uno straccio di rovine e
superbe architetture superstiti investite dal traffico cittadino, dalle
immondizie di bitume della civiltà che tale si dice. Ne è rimasta poca della
meraviglia di un tempo, dei giardini lussureggianti ridotti a brandelli di
verde addentati dall’asfalto e dalle palazzine anni settanta venute su senza
ordine e senza necessità. Ma questa è altra storia. Polibio ricorda la zona
come luogo di grandi foreste boscose, due secoli avanti Cristo, quando i
cartaginesi attaccarono gli alleati dei romani presso Panarmo. Ma cosa è
rimasto di quella natura prodigiosa e incontaminata? Quasi nulla. Un paesaggio
saccheggiato, sconciato, sfigurato e irriconoscibile. Il patrimonio comune di
bellezza smontato e calpestato metro per metro, con una furia devastatrice e
becera. Ed è un dolore abissale, che chiude la gola in una morsa come a vedere
invecchiare, ammalare e morire una persona amata. Una offesa che tocca
l’ideologia, la sapienza, la ragione, il risentimento morale.
«Il nome Bagheria pare che
venga da Bad el gherib che in arabo significa porta del vento», scrive
Dacia Maraini, che qui ha vissuto la sua infanzia, nel romanzo omonimo (Bagheria, Milano, Rizzoli,
1993). È una parola magica, Bagheria, un abracadabra, una terra mitica oggi
depredata, patria di nessuno, scenario inerme di un disfacimento progressivo e
incontrastato che la ingurgita, la corrode pezzo dopo pezzo, mattone su mattone.
Una visione che rivolta l’anima: il mare imbrigliato in colate di cemento,
celato alla vista da una fila interminabile di orribili villini, arroganti
costruzioni che sporgono dalle rocce dove una volta sedevano gli impagliatori
di sedie, che torcevano con le dita dei piedi la fibra battuta delle agavi; i
giardini distrutti, i parchi lottizzati per fare entrare l’autostrada fiammante
fin dentro le case; le vigne divelte, gli ulivi secolari inceneriti, come pure
gli aranceti, i gelsi; le meravigliose ville settecentesche rase al suolo,
sostituite da edifici moderni costruiti col solo criterio dell’abuso; le
superbe statue tufacee di villa Palagonia, glorie della stupefacente
immaginazione barocca siciliana, ingoiate in un vortice di nuove strutture, senza
senno e senza storia.
Villa Palagonia è tra le poche
costruzioni rimaste intatte, resistite al sacco degli stolti architetti
moderni. La visitarono illustri viaggiatori settecenteschi. I giovani rampolli
delle nobili famiglie europee che capitolavano il loro viaggio italiano di
formazione in Sicilia, proprio di fronte alle controverse e raccapriccianti
decorazioni tufacee della villa Palagonia a Bagheria. Viaggiatori inglesi,
francesi, tedeschi, polacchi, da Brydone a Goethe, al poeta neoclassico Rezzonico,
a Giovanni Meli tra gli italiani. Tutti fecero visita alle sue deformità, alle
sue originalità, incuriositi dalle letture delle guide che narravano di questa
villa straordinaria e fatata. La villa della beffa, della derisione, dello
sgomento con il suo fantastico complesso di ornamenti che affiorano su ogni
superficie, all’interno come pure all’esterno. Elogio dello sfarzo e trionfo
del fronzolo, dell’eccentricità. Herder la definì «il
palazzo incantato». Rezzonico della Torre, invece, «la
casa di Circe». Villa Palagonia, storicamente nota come “la villa
dei mostri”, è la costruzione di una illogica favola barocca, teatrale e
spettrale, che stabilisce la sua eccezionalità nella convivenza forzata con
l’assurdo e il deforme. Eppure una costruzione così densa di fascino,
dall’illustre passato storico e culturale. Oggi forse quasi nessuno proverebbe
il medesimo orrore e terrore che avvertirono gli antichi visitatori
settecenteschi, girando nei suoi interni sfarzosi, dove quasi nessuna
superficie è lasciata spoglia, dove le superfici stesse confondono i loro
contorni in un ornamento continuo e a volte stucchevole.
È una collezione dell’irrazionale. Un
ricamo di infiniti echi pomposi, lussuosi e frivoli, come imponeva il gusto del
tempo portato agli eccessi. Ed era forse proprio questo l’intento del suo
“arredatore” frenetico, quello di creare sgomento esaltando l’eccentricità
della moda del periodo. Siamo nel 1749, nel pieno secolo degli spaduzzi e dei
tricorni, delle parrucche impagliate e dei lunghi strascichi di broccato,
quando Francesco Ferdinando di Gravina e Alliata, settimo principe di
Palagonia, figura emblematica e misteriosa, intraprese i lavori di
completamento dell’interno e dell’esterno della villa, edificata nel 1715 da un
suo antenato come residenza estiva. A Francesco Ferdinando si devono le statue
in pietra di tufo che si affacciano dal labirinto d’ingresso, figure animali e
antropomorfe, di musicisti caprini e dame e cavalieri suini che danzano
beffardi davanti agli occhi. Il coronamento dell’ibrido, del carnevalesco che
cozzava all’epoca con il gusto neoclassico e attico delle dimore signorili di
Bagheria, coma quella apollinea della Villa Valguarnera, antica dimora della
famiglia degli Alliata di Salaparuta educati alla scuola dell’ordine. Creazioni
di una mitologia ibrida, quelle che accompagnano il visitatore verso la porta
d’ingresso.
Raccontano le guide per i Grand
Tourists settecenteschi delle “bestialità” contenute all’interno, di una sala
degli specchi creata per mettere a disagio gli ospiti che si vedevano riflessi
in giochi da funamboli e che venivano fatti accomodare su poltrone che davano
le spalle l’una alle altre, perché la conversazione salottiera cara alla
nobiltà non potesse trovarsi a suo agio. Sedie traballanti con i piedi mozzati
e le sedute trafitte di spilli e tutt’intorno una atmosfera cupa, un
moltiplicarsi senza fine di immagini mostruose, altorilievi marmorei e
policromi, soffitti affrescati di bestie d’ogni genere, eterne balconate
dipinte ad effetto tromp l’oeil da cui si affacciavano nelle sale oscuri
personaggi fantastici. Fontane senz’acqua, figure e oggetti ammassati senza
criterio, allineati o abbandonati in ogni angolo a rasentare l’asfissia, per
libero e puro sfogo al capriccio del suo committente. Ed infine lui, il
principe di Palagonia, che Giovanni Macchia nelle sue annotazioni «Et
in Palagonia ego» ricorda
come un personaggio contraddittorio di per se stesso, incipriato come un uomo
d’altri tempi ma sfuggente, che si comportava come se la vita non gli
appartasse, solitario, poco avvezzo alla conversazione e compiaciuto delle
dicerie che la sua misteriosità alimentava, al fascino e lo stupore che la sua
“opera”, la villa, suscitava nelle menti dei suoi contemporanei. Il principe di
cui Goethe diceva «non è un genio, ma un demente, senza un
briciolo di fantasia che sarebbe bestemmia attribuirgli».
Eppure a noi piace immaginarlo,
Francesco Ferdinando di Gravina e Alliata, come l’invasato architetto di una
sua mitologia delirante. Di un allegro sadismo ornamentale e sovrabbondante. Di
una composizione barocca che irrideva a se stessa, parodia del proprio infinito
riflesso. Ci piace immaginarlo estroso, questo nobiluomo settecentesco di cui
nei memoriali isolani si è fermata la gloria. Ci rallegra pensarlo come l’ideatore
di una sana follia creativa, d’una assurdità stupefacente e orgogliosa. E ci
rallegriamo di fantasticarla ancora così Bagheria, quando così non è più.
Quando la Bagheria
d’un tempo è andata perduta e quel che ne rimane se ne va disperdendo in
secchiate di calce. Ci consola vaneggiare che quella valle della nobiltà
palermitana sia rimasta intatta nei secoli, che non siano mai arrivati i folli
progetti incivili, che non siano mai nati gli architetti mafiosi e gli
ispettori corrotti che hanno permesso la lottizzazione, la speculazione
edilizia, la superstrada che taglia il centro del paese, le palazzine a ridosso
del mare.
Saremmo felici di poter “sciupare”
ancora una giornata dietro alle pazzie del Principe di Palagonia, anziché
perderci di coraggio e di speranza per gli orrori attuali, in un paese che ha
così poco amore per se stesso, per la sua storia e la sua identità. E chi ha
visto com’è ridotta oggi Bagheria non può che condividere questa disperazione.
Non può che partecipare allo sdegno del suo cuore democratico e civile. Lo
sdegno per le gravi ferite che l’abusivismo, con la complicità delle autorità
locali, ha inferto alla maestà del paese.
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