La cantante tradita dalla memoria
di
Tiziano Gianotti
Foto di
H. Assouline/Opale/Luzphoto
Mancava una
figura, nel celebre film Il pianista di Roman Polanski: la cantante che il vero
Wladyslaw Szpilman accompagnava, Wiera Gran, la "Marlene Dietrich
ebrea", star dei cabaret nel ghetto di Varsavia quando partivano i treni
della morte. Una omissione che è l'ultimo colpo, il più rivelatore, di una
vicenda di segreti e peccati che ha visto Wiera Gran nel ruolo di accusata, e
che Agata Tuszynska ha trasformato in un magnifico nonfiction novel, tutto
montaggio e misura che non dà tregua, un ritratto di donna desiderata e
divorata. Il passo d'entrata di Wiera è memorabile, una lunga invettiva contro
i parassiti: tarme (per quelle "ci vogliono i limoni"), poi blatte,
zecche, ma soprattutto: "Loro. LORO. I miei nemici si moltiplicano,
proliferano, con i loro insulti, le loro accuse, le loro trappole", e i
pidocchi che infestavano il ghetto, i bambini pidocchiosi a cui dar rifugio. Un
lungo paragrafo e il tono di Wiera è dato, il tema del libro in piena luce. È
la primavera del 2003, Agata Tuszynska si è presentata all'ingresso
dell'appartamento di Wiera a Parigi, in un quartiere elegante presso la torre
Eiffel e la Senna ,
e ad accoglierla ha trovato una vecchia in vestaglia rosa che si regge a una
stampella, i capelli raccolti alla bell'e meglio in uno chignon e il bagliore
degli occhi ancora belli, luminosi. È diffidente e determinata, porge un
registratore, si mette di traverso a impedire lo sguardo all'interno, inveisce.
Per una settimana la vecchia star del ghetto e la scrittrice parleranno sullo
stuoino, sedute su due sgabelli, poi un giorno Wiera tira dentro casa Agata,
nel bunker. È l'inizio di un colloquio che durerà fino alla morte della Gran
nel 2007, di una dedizione difficile raccontata in prima persona dalla
scrittrice, alternando alla narrazione scampoli di dialoghi ma più spesso
monologhi di Wiera, estratti di documenti consultati negli archivi e colloqui
con altri sopravvissuti, vicini o nemici a lei, la vecchia paranoica che
convive con le ombre, barricata nel suo bunker domestico. Wiera è agli ultimi
passi dello spettacolo più tragico: la sua vita di sopravvissuta alla tragedia
del ghetto, all'annientamento, che accuse mai provate e contraddette da altri
hanno marchiato come spia, collaboratrice, "puttana della Gestapo",
come qualcuno l'apostroferà al rifiuto delle proprie avances. Lo spettacolo che
la Tuszynska
trova nel bunker di Wiera non può lasciarla indifferente: la confusione
ordinata della paranoia, le sentenze e i reportage della terribile vicenda
raccolti e ordinati, memorabilia della carriera, manifesti e foto dappertutto,
vecchi abiti e valigie, scritte tracciate con l'inchiostro sui muri, tra cui
spicca e squilla quella in corridoio: "Aiuto! La cricca di Szpilman e
Polanski vuole uccidermi! AIUTO!". Szpilman, l'idea fissa. Wiera è una
vecchia che dice di cineprese nascoste nelle lampadine per spiarla e dorme con
un martello e un cacciavite sotto il cuscino - ma quando parla delle accuse è
chiara. La storia di Wiera è ormai un'ossessione per Agata, figlia di una
sopravvissuta del ghetto. È la storia di una bella donna di vent'anni al
culmine del successo, adorata e concupita dagli uomini, che si ritrova
prigioniera per sedici mesi nell'inferno del ghetto. Diventa la star dello
"Sztuka", il caffè dove canta accompagnata da Wladyslaw Szpilman,
assunto grazie a lei, frequentato da ricchi profittatori e sgherri della
polizia ebraica: "Persone a cui il destino aveva concesso una nuova
opportunità, che per questo avevano combattuto, che se l'erano guadagnata, che
si rifiutavano di diventare sapone", graffia Wiera, senza ipocrisia. Lei
se ne è andata dal ghetto per salvarsi, non voleva salire sui treni della
morte, dove sono finite la madre e le sorelle. Non ha potuto salvarle, non ha
potuto aiutare nessuno, si è salvata ma il prezzo è stato alto: l'ossessione
per quello scarto di fronte alla morte. Questo è il punto dello scrittore: chi
ha diritto di giudicare i sopravvissuti? Wiera è stata perseguitata per tutta
la vita da accuse non provate e da omissioni, come quella di Szpilman, l'altro
sopravvissuto che quando la incontra nel 1945 esclama: "Non sei morta?!".
Non solo non l'aiuterà a lavorare per la radio polacca dove ora comanda, ma
attacca: "Ho sentito dire che collaboravi con la Gestapo ". Wiera dovrà
difendersi, uscirà assolta dal processo del Tribunale civico ebraico, lascerà la Polonia per Israele dove
troverà ad accoglierla le stesse accuse e faticherà a lavorare nonostante sia
nel pieno della maturità e bella come non mai: la foto sulla copertina del
libro, che la ritrae in nero con uno scollo profondo e discreto, gli occhi
socchiusi e la bella bocca che dice tutto, una sigaretta tra le dita di una
mano, mostra una sorta Romy Schneider ebrea, dura. Si rifugerà a Parigi,
inizierà una nuova carriera come cantante, si esibirà anche con Aznavour,
canterà La vie en rose, continuerà a combattere quelle che lei dice menzogne.
La donna che Agata Tuszynska ha incontrato e ascoltato, preda della paranoia ma
lucida, insiste nell'accusa infamante: afferma di aver visto Szpilman col
cappello della polizia ebraica trascinare una donna verso il treno della
deportazione. Lo scrittore registra e riporta, non può non farlo. Le ombre
intorno alla vita di Wiera Gran e alle vicende del ghetto di Varsavia non si
alzeranno mai. –
Agata Tuszynska,
Wiera
Gran. L'accusata, Einaudi, 20 euro
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