1962. Luciano Bianciardi pubblica La vita agra, opera che fa da palinsesto (come disse
Geno Pampaloni) ai motivi che animeranno qualche anno dopo la contestazione
giovanile.
Il
successo è immediato. “Ormai sto girando come un
rappresentante di commercio” lamenta
lo scrittore durante il suo giro d’Italia per presentare il libro. “A volte sembro un comico d’avanspettacolo: sempre le stesse
battute e sempre con l’aria di chi le dice per la prima volta”.
La cosa sorprendente del libro di Bianciardi (un romanzo che sconfina nel
saggio sociologico e nel pamphlet politico) è che delinea al presente e al
futuro quel che noi possiamo raccontare oggi al passato e al presente,
cioè descrive con chiarezza essenziale quanto stavamo per trovarci di
fronte, accanto. Dentro.
“Faranno
insorgere bisogni
mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile
l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un
televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici
automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno,
l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda. A tutti. Purché lavorino,
purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a
tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo”.
Se ci
pensate, mancano l’iPod, i telefonini e i computer portatili (solo perché non
erano stati ancora inventati) ed è lo specchio della nostra società. Una
prefigurazione in parte positiva: è bello che tutti abbiano l’acqua calda, che
tutti possano muoversi e ascoltare la radio. Ma nel paniere ci sono anche molti
oggetti superflui, e per averli – denuncia Bianciardi – ci viene chiesto di sopportare qualunque fastidio, qualunque
compromesso, anche di snaturare la nostra vita, anche di renderla un inferno.
Un po’ come oggi, dunque. Tutto previsto quasi cinquant’anni fa, quando si era
in tempo per studiare un’evoluzione diversa, per ragionarci su con qualche
ispirazione. Eppure è accaduto. Nessuno accusò l’autore di millenarismo o di disfattismo, anche se ipotizzare questo scenario
nel 1962 era davvero fantascienza. In quell’epoca un milione e mezzo di persone
emigrava verso la Germania
e verso il nord Italia in cerca di lavoro… E nessuno (o quasi) si oppose.
La cosa
più rilevante, tuttavia, è che fin da allora Bianciardi aveva individuato la
sua ricetta antidecadenza. Sentite: “Ora so che non basta
sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La
rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine. Occorre che la gente impari a non muoversi, a non
collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a
rinunziare a quelli che ha”. Incredibile. Negli anni più caldi
della contrapposizione politica, della lotta di classe, dell’azione unitaria
delle masse contro il potere costituito, Luciano Bianciardi credeva nell’individuo, in quella minima
cellula eversiva che è ognuno di noi, dentro di sé: l’Uomo in Rivolta.
Per
Bianciardi la lotta tra classi, l’attività politica e associativa non bastavano
se all’interno, come punto di partenza, l’individuo non si assumeva la responsabilità personale di dire no, di non aderire, di andare contro
il sistema borghese e consumistico. In interiore homine,
per dire “adesso basta” ognuno a suo modo, con la propria
forza e il proprio coraggio. Soprattutto, per diventare più saldi, più solidi,
meno bisognosi, meno questuanti ai margini del grande banchetto del pietoso e faticoso
superfluo.
Tratto da Avanti tutta, Chiarelettere 2011
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