lunedì
12 dicembre 2011
La
palestra può aspettare
Sono
già le undici e un quarto, ma ho fatto tutto, o quasi: letti (tranne il mio),
messo in ordine, mi sono pesata (aumentata di mezzo chilo), fatta la doccia,
incremata, vestita. In onore del mio nuovo amico (il mezzo chilo) mi sono
addirittura messa la gonna, così che anche lui si può far notare in giro.
La
palestra per oggi può aspettare, ci sono cose più importanti da fare. Come
sputtanare un amico, per esempio. Amico, poi, per dire.
Dopo il
mio caffé stamattina ho sentito Serena che mi fa, “Hai visto il Corriere?” Io
non lo leggo proprio, il Corriere e lei neanche. Ma qualcuno le ha detto
dell’articolo uscito oggi: intervista al grande Enzo Jannacci, che parla del
libro (coccodrillo?) appena uscito di suo figlio, e della sua genialità. E dei
suoi amici, appunto. Quelli andati e quelli ancora qui. Delle sue canzoni, e
tra le altre cose, del suo regalo a Mario Monicelli, che invece l’Enzo il
regalo lo ha ricevuto lui quella volta lì. Da mio padre.
Apro
una lunga parentesi. Erano gli anni del dopoguerra. Milano era in parte macerie
e in parte ancora periferia, soprattutto in zona Undici, dove c’è la via Lomellina
che incrocia la via Sismondi e in fondo a sinistra c’è anche Piazza Adigrat.
Mio
padre, figlio di marconista, viveva nella suddetta piazza Adigrat con sua madre
e sua sorella perchè la zona Undici è la più vicina all’aeroporto di Linate.
Come la sua, altre famiglie della zona avevano padri aviatori, marconisti e via
andare, a cui erano appunto stati dati appartamenti. Una di queste era la
famiglia Jannacci, perché lui era aviatore, collega di mio nonno, tra l’altro.
Avevano
tre o quattro anni quando Enzo e mio padre si sono conosciuti, e dall’ora non
si sono mai mollati: ginocchie sbucciate insieme, partite di calcio
improvvisate, fidanzate, poi mogli, figli, vacanze insieme. E lavoro, tanto.
Dettato da una sintonia rara, squilibrata e genialoide. Il dottor Jannacci si
pagava l’università cantando nei locali dell’adiacente Ortica, posto di operai
che lavoravano all’Innocenti.
Sono
venute fuori cose che ancora adesso sono d’avanguardia. Mio padre è stato nel
frattempo preso in Rai, e dunque in teoria non poteva firmare niente che non
fosse proprietà Rai. Ma invece firmava: ha firmato Quelli che, ha firmato
Vincenzina, ha firmato anche i dialoghi di Romanzo Popolare, film di Monicelli,
appunto. Ha firmato tanti lavori di Cochi e Renato. Ha firmato libri.
Ha
anche scritto uno spettacolo teatrale, a quattro mani, come tutte le cose fatte
fuori Rai. Mentre si disegnava la locandina, mio padre venne ricoverato in
ospedale, per via della pressione alta. Dalla sua camera di ospedale, ricevette
la locandina freca fresca di stampa che annunciava senza fraintendimenti: testi
di Enzo Jannacci.
Contro
tutta la sua cartella medica, scappa dall’ospedale, e in mezz’ora è a casa.
“Cosa ci fai qui?”, dice mia madre sbalordita. La pressione a questo punto
credo fosse ai massimi storici.
Mio
padre prende il telefono grigio in sala, quello sulla cassapanca di fronte alla
finestra, e manda un bel telegramma, che a quei tempi si faceva così.
Finisce
così la loro amicizia. I loro trent’anni di telefonate quotidiane, di nottate passate
da Enzo sul divano di pelle marrone in sala a dormire, quando non c’aveva
voglia di andare a casa, le estati tra Ospdaletti e Bordighera, le nottate a
bere, scrivere e soprattutto ridere. Le collaborazioni, tutto.
Passò
qualche anno prima che Enzo prendesse il coraggio per citofonare Viola in Via
Sismondi trentasei, quarto piano. Arrivò in sala, papà aprì la porta e ci fu un
attimo di imbarazzo prima dei saluti.
Poi
però si ritrovarono ancora una volta nei ruoli di sempre. A mio padre piaceva
parlare da in piedi, gesticolando e fumando. Enzo invece si sedeva, che
apparentemente sembrava anche più pacato. Sfarfugliava, come sempre.
Prima
di andarsene, apre la porta dell’ascensore, che arriva direttamente in sala, si
volta verso mio padre per salutarlo e gli fa “Hai visto come vende bene Quelli
che?” Papà aveva visto, ma solo che anche quella volta, quella di Quelli che,
Enzo si era dimenticato d dire alla SIAE che non l’aveva scritta da solo.
Mentre
l’ascensore scende, mio padre si volta verso mia madre e dice, :”Ma hai visto
che faccia di tolla? MI viene anche a dire che vende bene?”.
Tre
giorni dopo mio padre muore, e di Quelli che, e di Vincenzina e di tutto il
resto non se ne fa più niente: nessuno chiama la SIAE per dire guardi che
forse c’è stata una distrazione.
Gli
anni passano per tutti, anche per il dottor Jannacci, che vuole tanto che lo
chiamiamo zio, ma che ancora non ha capito chi sono io e chi è Renata, per
dire. Sono passati anche gli anni che noi eravamo piccole, orfani di padre, e
che lui abitava in via Sismondi con la sua mamma, la Sciura Mariuccia,
che ogni volta che mi incontrava dal panettiere diceva: “Me racumandi, vorighe
ben al mi Enzo, Vorighe ben!”, non gli è mai venuto in mente di salire per
sapere come stavamo noi, o la
Franchina, anche lei conosciuta in Piazza Adigrat nel ’45.
Ma,
insomma, anche lui aveva il suo da fare, per l’amore d’un dio. Non ce lo siamo
mai aspettate e non c’è neanche mai particolarmente mancato.
Lo
avevo chiamato personalmente un paio di volte: una volta per chiedergli
consigli su un’amica che mi aveva detto che aveva cominciato a bucarsi. Volevo
chiedergli consigli medici, che mi ha dato al telefono, molto gentilmente.
Un’altra volta quando Dan viveva a Milano e era stato poco bene, e io lo avevo
portato nel suo studio medico. Anche quella volta lì, gentile, dipsonibile,
carinissimo. Baci abbracci, come sta la mamma, dille che uno di questi giorni
passo. Robe di normale amministrazione.
Una
decina di anni fa Baldini e Castoldi decide di riproporre alcuni scritti di mio
padre. Tempo tre giorni dall’uscita del libro, il telefono squilla in via
Sismondi trentasei, casa Viola, la mattina presto. Era l’avvocato del dottor
Jannacci, che voleva ricordare alla signora Viola che non tutti i pezzi
pubblicati erano stati scritti a due mani.
Mia
madre, che quando ha qualcosa da dire piuttosto si strozza, ma la deve dire,
dice all’avvocato (che poi era il cognato del dottor Jannacci), di ricordare al
suo cliente che se è per quello, ci sono anni di diritti che noi non abbiamo
mai visto, e che il suo cliente ha qualcosa da dirle, sa benissimo dove
trovarla: corso Sempione, terzo piano Rai, redazione sportiva, e che lei è lì
dalla mattina alla sera a farsi il culo.
Cornetta
buttata giù in malomodo da mia madre, con conseguente visita in Rai del dottor
Jannacci con la sua coda tra le gambe dicendo dai cosa te la prendi non è stata
un’idea mia farti chiamare, figurati se io…
Fine
della trasmissione. Chiusa parentesi.
Stamattina
Serena mi chiede se ho letto il Corriere, che io non leggo e neanche lei, ma
qualcuno le ha detto di quest’articolo uscito su Enzo Jannacci, in cui, dice
lui, di aver scritto Vincenzina e di averla data come regalo a Monicelli.
Ho
sentito le ossa di mio padre fibrillare da qui, che sono ben lontana dal
cimitero di Lambrate, a Milano. Perché ovviamente non è neanche una questione
di soldi, altrimenti avremmo già fatto il da farsi. È proprio una questione
morale.
Adesso
che la pressione alta è venuta anche a me, passo e chiudo, che tanto sono
storie vecchie, anzi antiche.
Tratta da: pensierieparole.blogspot.it di marina viola, figlia di beppe