maria, angelina e rosalia di girolamo

martedì 29 maggio 2012

povera vita mia - 99 posse ( 2000 )





Alle volte mi ritrovo con la testa tra le mani
e penso di essere diventato pazzo 
mi dico cazzo! non è reale qua mi devo calmare 
eh già, devo stare calmo, riprendere il controllo, 
lucidità, perché fa caldo qua, 
senti che caldo che fa, si muore, ma si fa per dire 
non è che fa caldo e uno muore 
a meno che non sia anziano e c'abbia problemi col cuore 
o di pressione, ma non è che fa caldo e uno muore 
il caldo è una cosa naturale, come andare a lavorare 
C'è l'affitto da pagare? Vai a lavorare, 
lì ti possono sfruttare, umiliare, sottopagare, 
cassaintegrare, ma non è che ti possono ammazzare, 
non è così, perdio, non è così che deve andare, 
cazzo, morire, cazzo morire per poco più di un milione 
non può capitare, ma non si sa come 
succede ogni giorno a ben tre persone 
e io sarei il pazzo! mille morti l'anno è una guerra perdio 
ed io sono un pazzo fottuto che con una guerra in corso 
vado ancora in giro disarmato, un pazzo, un pazzo fottuto 

Povera vita mia chi coglie e magna 
chi se ne fa nu rap e chi na pigna 
Povera vita mia chi magna e magna 
chi se ne fa nu rap e chi na pigna 
Più ci penso e più mi è chiaro 
il fatto che non sono diventato pazzo 
è solo che là fuori c'è qualcuno 
che si è messo in testa di ammazzarci tutti 
e puoi giurarci che nemmeno lui è pazzo 
pazzo è riduttivo per un serial killer recidivo 
che poi non è neanche uno 
perché sono tanti e sono pure tanto ricchi 
e potenti e sfacciati maledetti siano loro 
e chi cazzo li ha creati, avidi assassini senza scrupoli 
che intascano un miliardo ogni due mesi 
e si permettono di parlare 
di taglio alle spese e ai contributi 
i bastardi fottuti, figurati se c'hanno orecchie per sentire 
chi gli parla di riduzione dell'orario di lavoro 
per loro se dopo otto ore di lavoro 
sei stanco, fai una cazzata e muori 
è un peccato e manco per la tua vita 
quanto per la pensione che hanno cacciato 
e comunque hanno risparmiato 
rispetto all'assunzione di nuove persone a pieno salario 
è questo lo straordinario obbligatorio 
chi vola alle Bahamas e chi va all'obitorio 
e dovremmo pure dirgli grazie 
perché “offrono” lavoro 

Povera vita mia chi coglie e magna 
chi se ne fa nu rap e chi na pigna 
Povera vita mia chi magna e magna 
chi se ne fa nu rap e chi na pigna 

Alle volte mi ritrovo con la testa fra le mani 
e penso, penso e rifletto: in Italia c'è un conflitto 
una guerra che fa più di mille morti all'anno 
tra lavoro e mala sanità, e dimmi tu 
se questa qua non è pulizia etnica 
cos'è come si chiama? 
Quando uno che c'ha i soldi può avere tutto 
e uno che ne ha di meno non ha diritto 
nemmeno a un letto in un ospedale quando sta male 
e se vuol farsi curare deve pagare 
solo che coi soldi che gli danno quelli del lavoro interinale 
c'è l'affitto da pagare, il bambino da mantenere 
e cosa cazzo vuoi pagare un dottore 
quando non sai nemmeno se tra due mesi 
c' avrai ancora un fottuto lavoro 
perché il lavoro interinale non è altro che 
una prestazione occasionale di lavoro manuale 
non qualificato, esattamente il caso in cui 
il rischio d'incidente sul lavoro è quintuplicato 
e tutto questo non è capitato 
ma è stato pensato, progettato e realizzato 
dal padronato in combutta con l'apparato decisionale dello stato 
per il quale la vita di un proletario non vale non dico niente 
ma sicuramente non vale il costo di un'assunzione regolare 
con tanto di corso di formazione professionale; 
è evidente il disegno criminale o no? 
o sono io che sono pazzo? 

Povera vita mia chi coglie e magna 
chi se ne fa nu rap e chi na pigna 
Povera vita mia chi magna e magna 
chi se ne fa nu rap e chi na pigna 

lunedì 21 maggio 2012

melissa viva a sedici anni


Ti parlo da viva

Con i sogni che lasci sparsi in giro

E le risate incazzate e dolci

Attaccate ai tuoi capelli

Viva resti

E i tuoi occhi stringono le mie mani

E con loro gioia

E battiti forti al cuore

Viva mi parli

Di vita sconosciuta

E quaderni rotti

Poi musicamusica

E moda

Stai passando sulla pelle

Di chi venerdi ti scrive

“ ti amo amore”

“anch’io”

Anche dopo sabato

Poi di tutte le domeniche

Di questa estate a venire

Poi del mio fiore strappato

E della primavera che continuerò a portarvi.

mercoledì 9 maggio 2012

nick drake - day is done




Day is done

When the day is done
Down to earth then sinks the sun
Along with everything that was lost and won
When the day is done

When the day is done
Hope so much your race will be all run
Then you find you jumped the gun
Have to go back where you begun
When the day is done

When the night is cold
Some get by but some get old
Just to show life's not made of gold
When the night is cold

When the bird has flown
Got no one to call your own
Got no place to call your home
When the bird had flown

When the game's been fought
You sped the ball across the court
Lost much sooner that you would've thought
Now the game's been fought

When the party's through
Seems so very sad for you
Didn't do the things you meant to do
Now there's no time to start anew
Now the party's through

When the day is done
Down to earth then sinks the sun
Along with everything that was lost and won
When the day is done

testo e traduzione Matteo Maculotti
Il giorno è passato

Quando il giorno è passato
Sulla terra poi affoga il sole
Insieme a tutte le conquiste e le perdite
Quando il giorno è passato

Quando il giorno è passato
Spero tanto la tua corsa sia conclusa
Poi scopri di aver bruciato le tappe
Devi tornare dove hai cominciato
Quando il giorno è passato

Quando la notte è fredda
Alcuni la superano, altri invecchiano
Perchè la vita non è fatta d'oro
Quando la notte è fredda

Quando l'uccello è volato via
Non hai nessuno a farti compagnia
Non hai nessun posto da chiamare casa
Quando l'uccello è volato via

Quando la partita è finita
Porti la palla in fondo al cortile
Hai perso molto prima delle tue aspettative
E ora la partita è finita

Quando la festa è conclusa
E' davvero triste per te
Non hai fatto le cose che volevi
E ora non c'è più tempo per ricominciare
Ora la festa è conclusa

Quando il giorno è passato
Sulla terra poi affoga il sole
Insieme a tutte le conquiste e le perdite
Quando il giorno è passato





luciano ligabue - il giorno di dolore che uno ha


non basta sganasciare la vita politica




1962. Luciano Bianciardi pubblica La vita agra, opera che fa da palinsesto (come disse Geno Pampaloni) ai motivi che animeranno qualche anno dopo la contestazione giovanile.
Il successo è immediato. “Ormai sto girando come un rappresentante di commercio” lamenta lo scrittore durante il suo giro d’Italia per presentare il libro. “A volte sembro un comico d’avanspettacolo: sempre le stesse battute e sempre con l’aria di chi le dice per la prima volta”. La cosa sorprendente del libro di Bianciardi (un romanzo che sconfina nel saggio sociologico e nel pamphlet politico) è che delinea al presente e al futuro quel che noi possiamo raccontare oggi al passato e al presente, cioè descrive con chiarezza essenziale quanto stavamo per trovarci di fronte, accanto. Dentro.
“Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda. A tutti. Purché lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo.
Se ci pensate, mancano l’iPod, i telefonini e i computer portatili (solo perché non erano stati ancora inventati) ed è lo specchio della nostra società. Una prefigurazione in parte positiva: è bello che tutti abbiano l’acqua calda, che tutti possano muoversi e ascoltare la radio. Ma nel paniere ci sono anche molti oggetti superflui, e per averli – denuncia Bianciardi – ci viene chiesto di sopportare qualunque fastidio, qualunque compromesso, anche di snaturare la nostra vita, anche di renderla un inferno. Un po’ come oggi, dunque. Tutto previsto quasi cinquant’anni fa, quando si era in tempo per studiare un’evoluzione diversa, per ragionarci su con qualche ispirazione. Eppure è accaduto. Nessuno accusò l’autore di millenarismo o di disfattismo, anche se ipotizzare questo scenario nel 1962 era davvero fantascienza. In quell’epoca un milione e mezzo di persone emigrava verso la Germania e verso il nord Italia in cerca di lavoro… E nessuno (o quasi) si oppose.
La cosa più rilevante, tuttavia, è che fin da allora Bianciardi aveva individuato la sua ricetta antidecadenza. Sentite: “Ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine. Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha”. Incredibile. Negli anni più caldi della contrapposizione politica, della lotta di classe, dell’azione unitaria delle masse contro il potere costituito, Luciano Bianciardi credeva nell’individuo,  in quella minima cellula eversiva che è ognuno di noi, dentro di sé: l’Uomo in Rivolta.
Per Bianciardi la lotta tra classi, l’attività politica e associativa non bastavano se all’interno, come punto di partenza, l’individuo non si assumeva la responsabilità personale di dire no, di non aderire, di andare contro il sistema borghese e consumistico. In interiore homine, per dire “adesso basta” ognuno a suo modo, con la propria forza e il proprio coraggio. Soprattutto, per diventare più saldi, più solidi, meno bisognosi, meno questuanti ai margini del grande banchetto del pietoso e faticoso superfluo.

Tratto da Avanti tutta, Chiarelettere 2011

la villa dei mostri - bagheria






La Villa dei Mostri” a Bagheria

La Villa dei Mostri” a Bagheria
Il “bestiario” dipinto dal principe di Palagonia
Reportage di Luca Gabriele

«Abbiamo sciupato una giornata dietro alle pazzie del Principe di Palagonia». Così appuntò Goethe nel suo taccuino del “Viaggio in Italia”. Una giornata sciupata dietro ai capricci e alla demenza del Principe di Palagonia e la sua dimora dell’assurdo. Ma chi era il Principe di Palagonia? Dove si trovava la sua dimora dell’impossibile?
Esiste ancora “la villa dei mostri”, annegata oggi in altre assurdità moderne, quelle delle distese di cemento che la circondano come una cintura di cilicio. Si trova a Bagheria, meravigliosa rocca del barocco siciliano che un tempo aveva vissuto degli sfarzi delle nobili famiglie palermitane che qui stabilirono le loro residenze di villeggiatura. Oggi ridotta a uno straccio di rovine e superbe architetture superstiti investite dal traffico cittadino, dalle immondizie di bitume della civiltà che tale si dice. Ne è rimasta poca della meraviglia di un tempo, dei giardini lussureggianti ridotti a brandelli di verde addentati dall’asfalto e dalle palazzine anni settanta venute su senza ordine e senza necessità. Ma questa è altra storia. Polibio ricorda la zona come luogo di grandi foreste boscose, due secoli avanti Cristo, quando i cartaginesi attaccarono gli alleati dei romani presso Panarmo. Ma cosa è rimasto di quella natura prodigiosa e incontaminata? Quasi nulla. Un paesaggio saccheggiato, sconciato, sfigurato e irriconoscibile. Il patrimonio comune di bellezza smontato e calpestato metro per metro, con una furia devastatrice e becera. Ed è un dolore abissale, che chiude la gola in una morsa come a vedere invecchiare, ammalare e morire una persona amata. Una offesa che tocca l’ideologia, la sapienza, la ragione, il risentimento morale.
«Il nome Bagheria pare che venga da Bad el gherib che in arabo significa porta del vento», scrive Dacia Maraini, che qui ha vissuto la sua infanzia, nel romanzo omonimo (Bagheria, Milano, Rizzoli, 1993). È una parola magica, Bagheria, un abracadabra, una terra mitica oggi depredata, patria di nessuno, scenario inerme di un disfacimento progressivo e incontrastato che la ingurgita, la corrode pezzo dopo pezzo, mattone su mattone. Una visione che rivolta l’anima: il mare imbrigliato in colate di cemento, celato alla vista da una fila interminabile di orribili villini, arroganti costruzioni che sporgono dalle rocce dove una volta sedevano gli impagliatori di sedie, che torcevano con le dita dei piedi la fibra battuta delle agavi; i giardini distrutti, i parchi lottizzati per fare entrare l’autostrada fiammante fin dentro le case; le vigne divelte, gli ulivi secolari inceneriti, come pure gli aranceti, i gelsi; le meravigliose ville settecentesche rase al suolo, sostituite da edifici moderni costruiti col solo criterio dell’abuso; le superbe statue tufacee di villa Palagonia, glorie della stupefacente immaginazione barocca siciliana, ingoiate in un vortice di nuove strutture, senza senno e senza storia.
Villa Palagonia è tra le poche costruzioni rimaste intatte, resistite al sacco degli stolti architetti moderni. La visitarono illustri viaggiatori settecenteschi. I giovani rampolli delle nobili famiglie europee che capitolavano il loro viaggio italiano di formazione in Sicilia, proprio di fronte alle controverse e raccapriccianti decorazioni tufacee della villa Palagonia a Bagheria. Viaggiatori inglesi, francesi, tedeschi, polacchi, da Brydone a Goethe, al poeta neoclassico Rezzonico, a Giovanni Meli tra gli italiani. Tutti fecero visita alle sue deformità, alle sue originalità, incuriositi dalle letture delle guide che narravano di questa villa straordinaria e fatata. La villa della beffa, della derisione, dello sgomento con il suo fantastico complesso di ornamenti che affiorano su ogni superficie, all’interno come pure all’esterno. Elogio dello sfarzo e trionfo del fronzolo, dell’eccentricità. Herder la definì «il palazzo incantato». Rezzonico della Torre, invece, «la casa di Circe». Villa Palagonia, storicamente nota come “la villa dei mostri”, è la costruzione di una illogica favola barocca, teatrale e spettrale, che stabilisce la sua eccezionalità nella convivenza forzata con l’assurdo e il deforme. Eppure una costruzione così densa di fascino, dall’illustre passato storico e culturale. Oggi forse quasi nessuno proverebbe il medesimo orrore e terrore che avvertirono gli antichi visitatori settecenteschi, girando nei suoi interni sfarzosi, dove quasi nessuna superficie è lasciata spoglia, dove le superfici stesse confondono i loro contorni in un ornamento continuo e a volte stucchevole.
È una collezione dell’irrazionale. Un ricamo di infiniti echi pomposi, lussuosi e frivoli, come imponeva il gusto del tempo portato agli eccessi. Ed era forse proprio questo l’intento del suo “arredatore” frenetico, quello di creare sgomento esaltando l’eccentricità della moda del periodo. Siamo nel 1749, nel pieno secolo degli spaduzzi e dei tricorni, delle parrucche impagliate e dei lunghi strascichi di broccato, quando Francesco Ferdinando di Gravina e Alliata, settimo principe di Palagonia, figura emblematica e misteriosa, intraprese i lavori di completamento dell’interno e dell’esterno della villa, edificata nel 1715 da un suo antenato come residenza estiva. A Francesco Ferdinando si devono le statue in pietra di tufo che si affacciano dal labirinto d’ingresso, figure animali e antropomorfe, di musicisti caprini e dame e cavalieri suini che danzano beffardi davanti agli occhi. Il coronamento dell’ibrido, del carnevalesco che cozzava all’epoca con il gusto neoclassico e attico delle dimore signorili di Bagheria, coma quella apollinea della Villa Valguarnera, antica dimora della famiglia degli Alliata di Salaparuta educati alla scuola dell’ordine. Creazioni di una mitologia ibrida, quelle che accompagnano il visitatore verso la porta d’ingresso.
Raccontano le guide per i Grand Tourists settecenteschi delle “bestialità” contenute all’interno, di una sala degli specchi creata per mettere a disagio gli ospiti che si vedevano riflessi in giochi da funamboli e che venivano fatti accomodare su poltrone che davano le spalle l’una alle altre, perché la conversazione salottiera cara alla nobiltà non potesse trovarsi a suo agio. Sedie traballanti con i piedi mozzati e le sedute trafitte di spilli e tutt’intorno una atmosfera cupa, un moltiplicarsi senza fine di immagini mostruose, altorilievi marmorei e policromi, soffitti affrescati di bestie d’ogni genere, eterne balconate dipinte ad effetto tromp l’oeil da cui si affacciavano nelle sale oscuri personaggi fantastici. Fontane senz’acqua, figure e oggetti ammassati senza criterio, allineati o abbandonati in ogni angolo a rasentare l’asfissia, per libero e puro sfogo al capriccio del suo committente. Ed infine lui, il principe di Palagonia, che Giovanni Macchia nelle sue annotazioni «Et in Palagonia ego» ricorda come un personaggio contraddittorio di per se stesso, incipriato come un uomo d’altri tempi ma sfuggente, che si comportava come se la vita non gli appartasse, solitario, poco avvezzo alla conversazione e compiaciuto delle dicerie che la sua misteriosità alimentava, al fascino e lo stupore che la sua “opera”, la villa, suscitava nelle menti dei suoi contemporanei. Il principe di cui Goethe diceva «non è un genio, ma un demente, senza un briciolo di fantasia che sarebbe bestemmia attribuirgli».
Eppure a noi piace immaginarlo, Francesco Ferdinando di Gravina e Alliata, come l’invasato architetto di una sua mitologia delirante. Di un allegro sadismo ornamentale e sovrabbondante. Di una composizione barocca che irrideva a se stessa, parodia del proprio infinito riflesso. Ci piace immaginarlo estroso, questo nobiluomo settecentesco di cui nei memoriali isolani si è fermata la gloria. Ci rallegra pensarlo come l’ideatore di una sana follia creativa, d’una assurdità stupefacente e orgogliosa. E ci rallegriamo di fantasticarla ancora così Bagheria, quando così non è più. Quando la Bagheria d’un tempo è andata perduta e quel che ne rimane se ne va disperdendo in secchiate di calce. Ci consola vaneggiare che quella valle della nobiltà palermitana sia rimasta intatta nei secoli, che non siano mai arrivati i folli progetti incivili, che non siano mai nati gli architetti mafiosi e gli ispettori corrotti che hanno permesso la lottizzazione, la speculazione edilizia, la superstrada che taglia il centro del paese, le palazzine a ridosso del mare.
Saremmo felici di poter “sciupare” ancora una giornata dietro alle pazzie del Principe di Palagonia, anziché perderci di coraggio e di speranza per gli orrori attuali, in un paese che ha così poco amore per se stesso, per la sua storia e la sua identità. E chi ha visto com’è ridotta oggi Bagheria non può che condividere questa disperazione. Non può che partecipare allo sdegno del suo cuore democratico e civile. Lo sdegno per le gravi ferite che l’abusivismo, con la complicità delle autorità locali, ha inferto alla maestà del paese.

martedì 8 maggio 2012

buco nero ingoia stella: pappa buona!





Gli astronomi hanno rilevato per la prima volta da vicino e in modo diretto un fenomeno che accade molto di rado, quello di una stella inghiottita da un buco nero supermassiccio, in termine tecnico un "evento di distruzione mareale". Il fenomeno avviene quando una stella si avvicina troppo al buco nero, tanto che la forza di marea causata dal buco nero supera la forza di gravità che tiene insieme la stella fino a distruggerla. A quel punto metà della massa della stella viene espulsa dal sistema, mentre la metà rimanente viene accresciuta dal buco nero, rilasciando così una gran quantità di energia in poco tempo e causando un improvviso aumento della luminosità del sistema.
La stella oggetto di studio risiedeva in una galassia a 2,7 miliardi di anni luce di distanza e il buco nero incriminato è grande due milioni di volte più del sole. Una dimensione nemmeno immaginabile. È risaputo che i buchi neri sono presenti in tutte le galassie e che con la loro attrazione gravitazionale hanno la capacità di inghiottire pianeti, fonti di luce e stelle. È ciò che in astronomia più si avvicina al concetto di Spazio profondo e di frontera ignota e che in filosofia - nonché nell'immaginario comune - rappresenta la fine o l'inizio di tutto. Tuttavia il mistero che aleggia attorno al black hole è ancor oggi oggetto di studio e rimane uno dei più affascinanti di sempre.
Un ricercatore associato presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia Henry A. Rowland, Gezari, spiega meglio il fenomeno sull'ultimo numero di Nature: "Quando la stella è inghiottita dalle forze gravitazionali del buco nero, una parte dei resti della stella cade nel buco nero, mentre il resto viene espulso ad alta velocità. Abbiamo assistito ad un progressivo defluire del gas stellare nel buco nero e abbiamo rilevato che il gas per lo più espulso è elio. È un po' come raccogliere le prove su una scena del crimine". Per comprendere meglio la questione, è stato rilevato che stella distrutta era il nucleo ricco di elio di una gigante rossa che aveva precedentemente perduto il suo inviluppo di idrogeno, probabilmente a causa dello stesso effetto mareale che ha poi portato alla sua completa distruzione. In pratica era quel che rimaneva di una stella già in parte distrutta.


Fonte : Teresa, nasa, jpl

lunedì 7 maggio 2012

mi manchi...


la donna alla grata




Passai davanti a una fontanella pubblica alla quale stava bevendo un ragazzo. Piegai a sinistra e udii una voce sommessa, tenue e delicata che veniva dall’alto. Levai lo sguardo verso la casa di fronte e vidi, all’altezza del primo piano, il volto di una giovane donna dietro una fitta grata. La giovane era senza velo e scura di carnagione, e teneva il volto vicinissimo alla grata. Disse molte frasi che scorrevano leggere, e ognuna di quelle frasi era fatta di parole carezzevoli. Non riuscivo a capire perché mai quella donna non portasse il velo. Teneva la testa un po’ chinata e mi accorsi che parlava con me. La sua voce non si alzava mai di tono, rimase sommessa e uniforme; c’era una grande tenerezza in quella voce, come se tenesse la mia testa tra le braccia. Ma non vedevo le mani, non mostrava altro che il volto, forse le mani erano legate da qualche parte. La stanza dove lei si trovava era buia, sulla strada dove stavo io, invece, il sole splendeva abbagliante. Le sue parole sembravano scorrere da una fontana e traboccavano una nell’altra, ed io, che pure non avevo mai udito dei vezzeggiativi in quella lingua, mi accorsi che lo erano.
Volevo avvicinarmi di più per vedere la porta della casa da cui veniva la voce, ma temevo che un mio movimento la scacciasse come un uccello. Che cosa avrei fatto se si fosse taciuta? Cercai di essere come la voce, delicato e sommesso, e camminai come non avevo mai camminato. Mi riuscì di non spaventarla. Sentivo la voce anche quando fui vicinissimo alla casa, tanto da non poter più vedere la testa vicino alla grata. Lo stretto edificio faceva l’effetto di una torre in rovina. Si poteva guardare in una breccia del muro, da dove erano cadute delle pietre. La porta, fatta di povere assi e priva di qualsiasi ornamento, era stata fissata con del filo di ferro e a quel che sembrava non veniva aperta molto spesso. Non era una casa accogliente, non si poteva entrarci, dentro era buio e certamente tutto in rovina. Subito dietro l’angolo si apriva un vicolo cieco, ma era immoto e silenzioso, ed io non vidi nessuno a cui avrei potuto domandare qualcosa. Neppure nel vicolo smarrii il carezzevole flusso di quella voce, svoltato l’angolo aveva un suono come di lontanissimo mormorio. Tornai indietro, mi misi di nuovo a una certa distanza dalla casa e alzai lo sguardo, ed ecco rividi l’ovale di quel volto, vicinissimo alla grata, e le labbra che si muovevano in parole di tenerezza.
Mi sembrò che il loro suono fosse un poco mutato, vi sentivo dentro una supplica incerta, come se la donna volesse dirmi: non andartene. Forse aveva pensato che me ne fossi andato per sempre quando ero scomparso per esaminare la casa e il portone. Adesso ero di nuovo lì e dovevo restare. Come posso descrivervi l’effetto che suscita il volto di una donna senza velo, che abbassa lo sguardo dall’alto di una finestra, in una città come questa, in un vicolo come questo? Sono poche le finestre che danno sulle strade e non si vede mai nessuno affacciarsi fuori. Le case sono come muri, e si ha spesso l’impressione di camminare a lungo tra i muri, pur sapendo che sono case: si vedono le porte, e pochissime finestre che non vengono usate. Con le donne accade qualcosa di analogo: quando esse camminano come sacchi informi lungo i vicoli, non si scorge né si intuisce nulla, e presto ci si annoia di occuparsene e di dover ricorrere all’immaginazione. Si rinuncia alle donne. Ma si rinuncia a malincuore; così, quando poi una donna ti appare alla finestra e addirittura ti parla, e china leggermente il capo e non va più via, come se da sempre ti avesse atteso qui, una che poi continua a parlare quando le volti le spalle e ti allontani piano piano, una che parlerà, non importa se tu ci sei oppure no, che sempre ti parlerà, che parlerà sempre a tutti, quella donna, allora, diventa un miracolo, un’apparizione, e sei propenso a considerarla più importante di tutto ciò che pure varrebbe la pena di essere visto in questa città.
Mi sarei fermato lì molto più a lungo, ma non si può dire che quello fosse un quartiere tranquillo. Mi venivano incontro donne velate, che non si fermavano neanche un istante davanti alla loro compagna lassù, vicino alla grata. Passavano davanti alla casa a forma di torre come se nessuno parlasse. Non si fermavano, non guardavano in alto. Si avvicinavano alla casa con passi uniformi e, proprio sotto la finestra di lei che parlava, svoltavano nel vicolo dove io mi trovavo. Ma sentivo bene che mi lanciavano occhiate di disapprovazione. Che ci facevo qui? Perché stavo fermo in questo posto? Perché guardavo fisso in alto?
Sopraggiunse un gruppo di scolari. Andavano giocando e scherzando per la loro strada, comportandosi come se non udissero il suono che veniva dall’alto. Mi osservarono: io ero per loro più strano di quella donna senza velo. Mi vergognai un po’ di stare lì fermo con lo sguardo fisso. Sentivo però che andandomene avrei deluso quel volto accanto alla grata; le sue parole seguitavano a scorrere come un rivo di melodie, canti di uccelli. Ma in mezzo alle parole risuonavano ora i richiami squillanti dei bambini, che solo lentamente si allontanavano. Essi avevano con sé le loro cartelle ed erano appena usciti da scuola; cercavano di allungare il tragitto per tornare a casa e inventavano dei piccoli giochi: una delle regole consisteva nel saltellare su e giù per la strada. Avanzavano perciò a passo di lumaca, e mi inflissero il supplizio di starli a sentire.
Si fermò vicino a me una donna con accanto un bambino piccolissimo. Doveva essersi avvicinata da dietro perché non me n’ero accorto. Si fermò per poco; mi lanciò un’occhiataccia; oltre il velo riconobbi i lineamenti di una vecchia. Afferrò il bambino come se la mia presenza lo minacciasse e andò via ciabattando, senza degnarmi di una sola parola. Mi sentii a disagio, lasciai il mio posto e cominciai piano piano a seguirla. La vecchia scese lungo la strada costeggiando alcune case e poi imboccò una traversa. Quando raggiunsi l’angolo dietro al quale lei era scomparsa, vidi in fondo a un vicolo cieco la cupola di una piccola qubba. In questo paese chiamano così i sepolcri dei santi presso i quali si recano in pellegrinaggio i fedeli con i loro voti. La vecchia era ferma davanti al portone chiuso della qubba e sollevò in alto il piccolissimo bambino.Gli premette la bocca contro un oggetto che io, dal mio punto di osservazione, non fui in grado di discernere. Ripetè quel gesto più volte, poi mise il bimbo a terra, gli prese la manina e si voltò per andarsene. Una volta raggiunto l’angolo del vicolo, dovette nuovamente passare davanti a me, ma questa volta neanche mi guardò più male e riprese la strada dalla quale eravamo venuti.
Io mi avvicinai alla qubba e vidi sul portone di legno, a mezz’altezza, un anello intorno al quale erano avvolti alcuni vecchi stracci. Erano questi che il bambino aveva baciato. Tutto si era svolto nel massimo silenzio, e nel mio sgomento non mi ero accorto che avevo alle spalle gli scolari che mi stavano osservando. Ad un tratto udii la loro chiara risata, tre o quattro ragazzini si lanciarono sulla porta della qubba, afferrarono l’anello e si misero a baciare i vecchi stracci. Ridendo forte ripeterono la procedura da ogni lato. Uno si attaccò a destra dell’anello, un altro a sinistra, e i loro baci continuarono a susseguirsi con schiocchi rumorosi. Di lì a breve furono cacciati via da altri ragazzini che gli stavano dietro. Ciascuno di essi voleva mostrarmi come bisognava fare; forse si aspettavano che io li imitassi. Erano tutti bambini puliti e ben tenuti, certamente venivano lavati più di una volta al giorno. Gli stracci, al contrario, parevano sporchissimi, come se fossero serviti per lavare la strada. Passavano per brandelli del santo stesso, e trattenevano qualcosa della sua santità ad uso dei fedeli.
I ragazzi, dopo averli baciati a sazietà, mi raggiunsero e si misero in circolo attorno a me. Uno mi colpì per il suo viso intelligente e mi accorsi che avrebbe volentieri parlato con me. Gli domandai in francese se sapeva leggere. Rispose molto educatamente: “ Oui, monsieur “. Io portavo un libro sottobraccio, e aprendolo glielo porsi; egli lesse lentamente ma senza errori alcune frasi in francese. Il libro era un’opera sulle usanze religiose dei marocchini, e nel punto dove l’avevo aperto trattava della venerazione dei santi e delle loro qubba. Forse fu un caso o forse anche no, comunque il ragazzo mi stava leggendo ad alta voce ciò che poco prima mi aveva mostrato insieme ai suoi compagni. Ma non diede a vedere di essersi accorto di questo, forse era talmente preso dalla lettura che non afferrava affatto il senso delle parole. Lo lodai, ed egli accolse il mio apprezzamento con la dignità di un adulto. A me piacque moltissimo, tanto che senza volere lo misi in relazione con la donna della grata.
Feci segno in direzione della casa in rovina e domandai: “ Conosci quella donna che sta lassù, vicino alla grata? “
“ Oui, monsieur “ disse, e si fece serissimo in volto.
“ Elle est malade? “ domandai ancora.
“ Elle est très malade, monsieur “.
Quel “ molto “ che dava più forza alla mia domanda, suonò come un lamento, ma un lamento per qualcosa a cui quel ragazzino si era totalmente rassegnato. Avrà avuto nove anni, ma il suo aspetto ora era quello di chi ha vissuto già vent’anni con una malata grave, sapendo benissimo come bisogna comportarsi in questi casi.
“ Elle est malade dans sa tete, n’est-ce pas? “
“ Oui, monsieur, dans sa tete”. Fece un cenno col capo, quando disse “ in testa “, ma invece di indicare la propria testa, indicò quella di un altro ragazzo che era davvero di una bellezza speciale: aveva un viso lungo, pallido, con grandi occhi spalancati, neri e tristissimi. Nessuno dei bambini rise. Stettero lì in silenzio. Il loro umore era mutato di colpo quando io avevo cominciato a parlare della donna alla grata.


Elias Canetti  le voci di Marrakech  ed Adelphi 1991


a proposito di wiera gran



La cantante tradita dalla memoria

 

di Tiziano Gianotti

Foto di H. Assouline/Opale/Luzphoto
Mancava una figura, nel celebre film Il pianista di Roman Polanski: la cantante che il vero Wladyslaw Szpilman accompagnava, Wiera Gran, la "Marlene Dietrich ebrea", star dei cabaret nel ghetto di Varsavia quando partivano i treni della morte. Una omissione che è l'ultimo colpo, il più rivelatore, di una vicenda di segreti e peccati che ha visto Wiera Gran nel ruolo di accusata, e che Agata Tuszynska ha trasformato in un magnifico nonfiction novel, tutto montaggio e misura che non dà tregua, un ritratto di donna desiderata e divorata. Il passo d'entrata di Wiera è memorabile, una lunga invettiva contro i parassiti: tarme (per quelle "ci vogliono i limoni"), poi blatte, zecche, ma soprattutto: "Loro. LORO. I miei nemici si moltiplicano, proliferano, con i loro insulti, le loro accuse, le loro trappole", e i pidocchi che infestavano il ghetto, i bambini pidocchiosi a cui dar rifugio. Un lungo paragrafo e il tono di Wiera è dato, il tema del libro in piena luce. È la primavera del 2003, Agata Tuszynska si è presentata all'ingresso dell'appartamento di Wiera a Parigi, in un quartiere elegante presso la torre Eiffel e la Senna, e ad accoglierla ha trovato una vecchia in vestaglia rosa che si regge a una stampella, i capelli raccolti alla bell'e meglio in uno chignon e il bagliore degli occhi ancora belli, luminosi. È diffidente e determinata, porge un registratore, si mette di traverso a impedire lo sguardo all'interno, inveisce. Per una settimana la vecchia star del ghetto e la scrittrice parleranno sullo stuoino, sedute su due sgabelli, poi un giorno Wiera tira dentro casa Agata, nel bunker. È l'inizio di un colloquio che durerà fino alla morte della Gran nel 2007, di una dedizione difficile raccontata in prima persona dalla scrittrice, alternando alla narrazione scampoli di dialoghi ma più spesso monologhi di Wiera, estratti di documenti consultati negli archivi e colloqui con altri sopravvissuti, vicini o nemici a lei, la vecchia paranoica che convive con le ombre, barricata nel suo bunker domestico. Wiera è agli ultimi passi dello spettacolo più tragico: la sua vita di sopravvissuta alla tragedia del ghetto, all'annientamento, che accuse mai provate e contraddette da altri hanno marchiato come spia, collaboratrice, "puttana della Gestapo", come qualcuno l'apostroferà al rifiuto delle proprie avances. Lo spettacolo che la Tuszynska trova nel bunker di Wiera non può lasciarla indifferente: la confusione ordinata della paranoia, le sentenze e i reportage della terribile vicenda raccolti e ordinati, memorabilia della carriera, manifesti e foto dappertutto, vecchi abiti e valigie, scritte tracciate con l'inchiostro sui muri, tra cui spicca e squilla quella in corridoio: "Aiuto! La cricca di Szpilman e Polanski vuole uccidermi! AIUTO!". Szpilman, l'idea fissa. Wiera è una vecchia che dice di cineprese nascoste nelle lampadine per spiarla e dorme con un martello e un cacciavite sotto il cuscino - ma quando parla delle accuse è chiara. La storia di Wiera è ormai un'ossessione per Agata, figlia di una sopravvissuta del ghetto. È la storia di una bella donna di vent'anni al culmine del successo, adorata e concupita dagli uomini, che si ritrova prigioniera per sedici mesi nell'inferno del ghetto. Diventa la star dello "Sztuka", il caffè dove canta accompagnata da Wladyslaw Szpilman, assunto grazie a lei, frequentato da ricchi profittatori e sgherri della polizia ebraica: "Persone a cui il destino aveva concesso una nuova opportunità, che per questo avevano combattuto, che se l'erano guadagnata, che si rifiutavano di diventare sapone", graffia Wiera, senza ipocrisia. Lei se ne è andata dal ghetto per salvarsi, non voleva salire sui treni della morte, dove sono finite la madre e le sorelle. Non ha potuto salvarle, non ha potuto aiutare nessuno, si è salvata ma il prezzo è stato alto: l'ossessione per quello scarto di fronte alla morte. Questo è il punto dello scrittore: chi ha diritto di giudicare i sopravvissuti? Wiera è stata perseguitata per tutta la vita da accuse non provate e da omissioni, come quella di Szpilman, l'altro sopravvissuto che quando la incontra nel 1945 esclama: "Non sei morta?!". Non solo non l'aiuterà a lavorare per la radio polacca dove ora comanda, ma attacca: "Ho sentito dire che collaboravi con la Gestapo". Wiera dovrà difendersi, uscirà assolta dal processo del Tribunale civico ebraico, lascerà la Polonia per Israele dove troverà ad accoglierla le stesse accuse e faticherà a lavorare nonostante sia nel pieno della maturità e bella come non mai: la foto sulla copertina del libro, che la ritrae in nero con uno scollo profondo e discreto, gli occhi socchiusi e la bella bocca che dice tutto, una sigaretta tra le dita di una mano, mostra una sorta Romy Schneider ebrea, dura. Si rifugerà a Parigi, inizierà una nuova carriera come cantante, si esibirà anche con Aznavour, canterà La vie en rose, continuerà a combattere quelle che lei dice menzogne. La donna che Agata Tuszynska ha incontrato e ascoltato, preda della paranoia ma lucida, insiste nell'accusa infamante: afferma di aver visto Szpilman col cappello della polizia ebraica trascinare una donna verso il treno della deportazione. Lo scrittore registra e riporta, non può non farlo. Le ombre intorno alla vita di Wiera Gran e alle vicende del ghetto di Varsavia non si alzeranno mai. –


Agata Tuszynska, Wiera Gran. L'accusata, Einaudi, 20 euro



venerdì 4 maggio 2012

no, oggi sto bene...


                                       quello che perde i pezzi - giorgio gaber

mercoledì 2 maggio 2012

appunti davanti allo stretto di magellano



A nord di Mantiales, villaggio petrolifero della Terra del Fuoco, sorgono le quindici o venti case di un paesino di pescatori chiamato Angostura, e cioè “strettoia”, perché si trova proprio davanti al primo restringimento dello stretto. Le case sono abitate soltanto durante la breve estate australe. Poi, durante il fugace autunno e il lungo inverno, non sono altro che un punto di riferimento nel paesaggio. Angostura non ha un cimitero, ma ha una tomba, un piccolo sepolcro che è stato dipinto di bianco e che guarda verso il mare. Vi riposa Panchito Barria, un ragazzino morto a undici anni. In tutto il mondo si vive e si muore, ma il caso di Panchito è tragicamente speciale, perché il bambino è morto di tristezza.
Prima di compiere tre anni, Panchito fu colpito da una poliomielite che lo lasciò invalido. I suoi genitori, pescatori di San Gregorio, in Patagonia, ogni estate attraversavano lo stretto per installarsi ad Angostura. Portavano con loro il bambino, come un amoroso fagotto che se ne stava ben seduto su delle coperte, a guardare il mare. Fino a cinque anni Panchito Barria fu un bambino triste, poco socievole, quasi incapace di parlare. Ma un bel giorno accadde uno di quei miracoli che sembrano ovvi nel sud del mondo: una formazione di venti o più delfini australi comparve davanti ad Angostura, nel loro passaggio dall’Atlantico al Pacifico. Gli abitanti del luogo che mi hanno raccontato la storia di Panchito, hanno detto che appena li vide, il bambino si lasciò sfuggire un urlo lacerante, e che a mano a mano che i delfini si allontanavano, le sue grida crescevano in volume e sconforto. Alla fine, quando i delfini erano ormai scomparsi, dalla gola del bambino sfuggì un grido acuto, una nota altissima che allarmò i pescatori, ma che fece ritornare indietro uno dei cetacei.
Il delfino si avvicinò alla costa e iniziò a fare salti nell’acqua. Panchito lo incoraggiava con le note acute che gli sgorgavano dalla gola. Tutti capirono che tra il bambino e il cetaceo si era stabilita una forma di comunicazione che prescindeva da dubbi e spiegazioni. Era successo perché la vita è fatta così. Punto e basta. Il delfino rimase davanti a Angostura tutta l’estate. E quando l’approssimarsi dell’inverno impose di abbandonare il luogo, i genitori di Panchito e gli altri pescatori notarono stupiti che nel bambino non c’era la minima traccia di dolore. Con una serietà inaudita per i suoi cinque anni, dichiarò che anche il suo amico delfino sarebbe partito, perché altrimenti ighiacci lo avrebbero intrappolato, ma che l’anno dopo avrebbe fatto ritorno. E l’estate successiva il delfino tornò.
Panchito cambiò, divenne un bambino loquace, allegro, arrivò a scherzare sulla sua condizione di invalido. Cambiò radicalmente. I suoi giochi con il delfino si ripetereno per sei estati. Panchito imparò a leggere, a scrivere, a disegnare il suo amico delfino. Collaborava come tutti gli altri bambini alla riparazione delle reti, preparava zavorre, seccava frutti di mare, sempre con il suo amico che saltava nell’acqua, compiendo prodezze per lui. Una mattina d’estate del 1990 il delfino non venne al suo quotidiano appuntamento. Allarmati, i pescatori lo cercarono, rastrellando lo stretto da cima a fondo. Non lo trovarono, ma incontrarono una nave officina russa, una delle assassine del mare, che navigava vicinissima al secondo restringimento dello stretto. Due mesi dopo Panchito Barria morì di tristezza. Si spense senza piangere, senza mormorare un lamento.
Io ho visitato la sua tomba e da lì ho guardato il mare, il mare grigio e agitato degli inizi dell’inverno. Il mare dove fino a poco tempo fa giocavano i delfini.

Luis Sepulveda – Patagonia Express ed. feltrinelli 1995