maria, angelina e rosalia di girolamo

mercoledì 9 maggio 2012

la villa dei mostri - bagheria






La Villa dei Mostri” a Bagheria

La Villa dei Mostri” a Bagheria
Il “bestiario” dipinto dal principe di Palagonia
Reportage di Luca Gabriele

«Abbiamo sciupato una giornata dietro alle pazzie del Principe di Palagonia». Così appuntò Goethe nel suo taccuino del “Viaggio in Italia”. Una giornata sciupata dietro ai capricci e alla demenza del Principe di Palagonia e la sua dimora dell’assurdo. Ma chi era il Principe di Palagonia? Dove si trovava la sua dimora dell’impossibile?
Esiste ancora “la villa dei mostri”, annegata oggi in altre assurdità moderne, quelle delle distese di cemento che la circondano come una cintura di cilicio. Si trova a Bagheria, meravigliosa rocca del barocco siciliano che un tempo aveva vissuto degli sfarzi delle nobili famiglie palermitane che qui stabilirono le loro residenze di villeggiatura. Oggi ridotta a uno straccio di rovine e superbe architetture superstiti investite dal traffico cittadino, dalle immondizie di bitume della civiltà che tale si dice. Ne è rimasta poca della meraviglia di un tempo, dei giardini lussureggianti ridotti a brandelli di verde addentati dall’asfalto e dalle palazzine anni settanta venute su senza ordine e senza necessità. Ma questa è altra storia. Polibio ricorda la zona come luogo di grandi foreste boscose, due secoli avanti Cristo, quando i cartaginesi attaccarono gli alleati dei romani presso Panarmo. Ma cosa è rimasto di quella natura prodigiosa e incontaminata? Quasi nulla. Un paesaggio saccheggiato, sconciato, sfigurato e irriconoscibile. Il patrimonio comune di bellezza smontato e calpestato metro per metro, con una furia devastatrice e becera. Ed è un dolore abissale, che chiude la gola in una morsa come a vedere invecchiare, ammalare e morire una persona amata. Una offesa che tocca l’ideologia, la sapienza, la ragione, il risentimento morale.
«Il nome Bagheria pare che venga da Bad el gherib che in arabo significa porta del vento», scrive Dacia Maraini, che qui ha vissuto la sua infanzia, nel romanzo omonimo (Bagheria, Milano, Rizzoli, 1993). È una parola magica, Bagheria, un abracadabra, una terra mitica oggi depredata, patria di nessuno, scenario inerme di un disfacimento progressivo e incontrastato che la ingurgita, la corrode pezzo dopo pezzo, mattone su mattone. Una visione che rivolta l’anima: il mare imbrigliato in colate di cemento, celato alla vista da una fila interminabile di orribili villini, arroganti costruzioni che sporgono dalle rocce dove una volta sedevano gli impagliatori di sedie, che torcevano con le dita dei piedi la fibra battuta delle agavi; i giardini distrutti, i parchi lottizzati per fare entrare l’autostrada fiammante fin dentro le case; le vigne divelte, gli ulivi secolari inceneriti, come pure gli aranceti, i gelsi; le meravigliose ville settecentesche rase al suolo, sostituite da edifici moderni costruiti col solo criterio dell’abuso; le superbe statue tufacee di villa Palagonia, glorie della stupefacente immaginazione barocca siciliana, ingoiate in un vortice di nuove strutture, senza senno e senza storia.
Villa Palagonia è tra le poche costruzioni rimaste intatte, resistite al sacco degli stolti architetti moderni. La visitarono illustri viaggiatori settecenteschi. I giovani rampolli delle nobili famiglie europee che capitolavano il loro viaggio italiano di formazione in Sicilia, proprio di fronte alle controverse e raccapriccianti decorazioni tufacee della villa Palagonia a Bagheria. Viaggiatori inglesi, francesi, tedeschi, polacchi, da Brydone a Goethe, al poeta neoclassico Rezzonico, a Giovanni Meli tra gli italiani. Tutti fecero visita alle sue deformità, alle sue originalità, incuriositi dalle letture delle guide che narravano di questa villa straordinaria e fatata. La villa della beffa, della derisione, dello sgomento con il suo fantastico complesso di ornamenti che affiorano su ogni superficie, all’interno come pure all’esterno. Elogio dello sfarzo e trionfo del fronzolo, dell’eccentricità. Herder la definì «il palazzo incantato». Rezzonico della Torre, invece, «la casa di Circe». Villa Palagonia, storicamente nota come “la villa dei mostri”, è la costruzione di una illogica favola barocca, teatrale e spettrale, che stabilisce la sua eccezionalità nella convivenza forzata con l’assurdo e il deforme. Eppure una costruzione così densa di fascino, dall’illustre passato storico e culturale. Oggi forse quasi nessuno proverebbe il medesimo orrore e terrore che avvertirono gli antichi visitatori settecenteschi, girando nei suoi interni sfarzosi, dove quasi nessuna superficie è lasciata spoglia, dove le superfici stesse confondono i loro contorni in un ornamento continuo e a volte stucchevole.
È una collezione dell’irrazionale. Un ricamo di infiniti echi pomposi, lussuosi e frivoli, come imponeva il gusto del tempo portato agli eccessi. Ed era forse proprio questo l’intento del suo “arredatore” frenetico, quello di creare sgomento esaltando l’eccentricità della moda del periodo. Siamo nel 1749, nel pieno secolo degli spaduzzi e dei tricorni, delle parrucche impagliate e dei lunghi strascichi di broccato, quando Francesco Ferdinando di Gravina e Alliata, settimo principe di Palagonia, figura emblematica e misteriosa, intraprese i lavori di completamento dell’interno e dell’esterno della villa, edificata nel 1715 da un suo antenato come residenza estiva. A Francesco Ferdinando si devono le statue in pietra di tufo che si affacciano dal labirinto d’ingresso, figure animali e antropomorfe, di musicisti caprini e dame e cavalieri suini che danzano beffardi davanti agli occhi. Il coronamento dell’ibrido, del carnevalesco che cozzava all’epoca con il gusto neoclassico e attico delle dimore signorili di Bagheria, coma quella apollinea della Villa Valguarnera, antica dimora della famiglia degli Alliata di Salaparuta educati alla scuola dell’ordine. Creazioni di una mitologia ibrida, quelle che accompagnano il visitatore verso la porta d’ingresso.
Raccontano le guide per i Grand Tourists settecenteschi delle “bestialità” contenute all’interno, di una sala degli specchi creata per mettere a disagio gli ospiti che si vedevano riflessi in giochi da funamboli e che venivano fatti accomodare su poltrone che davano le spalle l’una alle altre, perché la conversazione salottiera cara alla nobiltà non potesse trovarsi a suo agio. Sedie traballanti con i piedi mozzati e le sedute trafitte di spilli e tutt’intorno una atmosfera cupa, un moltiplicarsi senza fine di immagini mostruose, altorilievi marmorei e policromi, soffitti affrescati di bestie d’ogni genere, eterne balconate dipinte ad effetto tromp l’oeil da cui si affacciavano nelle sale oscuri personaggi fantastici. Fontane senz’acqua, figure e oggetti ammassati senza criterio, allineati o abbandonati in ogni angolo a rasentare l’asfissia, per libero e puro sfogo al capriccio del suo committente. Ed infine lui, il principe di Palagonia, che Giovanni Macchia nelle sue annotazioni «Et in Palagonia ego» ricorda come un personaggio contraddittorio di per se stesso, incipriato come un uomo d’altri tempi ma sfuggente, che si comportava come se la vita non gli appartasse, solitario, poco avvezzo alla conversazione e compiaciuto delle dicerie che la sua misteriosità alimentava, al fascino e lo stupore che la sua “opera”, la villa, suscitava nelle menti dei suoi contemporanei. Il principe di cui Goethe diceva «non è un genio, ma un demente, senza un briciolo di fantasia che sarebbe bestemmia attribuirgli».
Eppure a noi piace immaginarlo, Francesco Ferdinando di Gravina e Alliata, come l’invasato architetto di una sua mitologia delirante. Di un allegro sadismo ornamentale e sovrabbondante. Di una composizione barocca che irrideva a se stessa, parodia del proprio infinito riflesso. Ci piace immaginarlo estroso, questo nobiluomo settecentesco di cui nei memoriali isolani si è fermata la gloria. Ci rallegra pensarlo come l’ideatore di una sana follia creativa, d’una assurdità stupefacente e orgogliosa. E ci rallegriamo di fantasticarla ancora così Bagheria, quando così non è più. Quando la Bagheria d’un tempo è andata perduta e quel che ne rimane se ne va disperdendo in secchiate di calce. Ci consola vaneggiare che quella valle della nobiltà palermitana sia rimasta intatta nei secoli, che non siano mai arrivati i folli progetti incivili, che non siano mai nati gli architetti mafiosi e gli ispettori corrotti che hanno permesso la lottizzazione, la speculazione edilizia, la superstrada che taglia il centro del paese, le palazzine a ridosso del mare.
Saremmo felici di poter “sciupare” ancora una giornata dietro alle pazzie del Principe di Palagonia, anziché perderci di coraggio e di speranza per gli orrori attuali, in un paese che ha così poco amore per se stesso, per la sua storia e la sua identità. E chi ha visto com’è ridotta oggi Bagheria non può che condividere questa disperazione. Non può che partecipare allo sdegno del suo cuore democratico e civile. Lo sdegno per le gravi ferite che l’abusivismo, con la complicità delle autorità locali, ha inferto alla maestà del paese.

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