maria, angelina e rosalia di girolamo

lunedì 7 maggio 2012

a proposito di wiera gran



La cantante tradita dalla memoria

 

di Tiziano Gianotti

Foto di H. Assouline/Opale/Luzphoto
Mancava una figura, nel celebre film Il pianista di Roman Polanski: la cantante che il vero Wladyslaw Szpilman accompagnava, Wiera Gran, la "Marlene Dietrich ebrea", star dei cabaret nel ghetto di Varsavia quando partivano i treni della morte. Una omissione che è l'ultimo colpo, il più rivelatore, di una vicenda di segreti e peccati che ha visto Wiera Gran nel ruolo di accusata, e che Agata Tuszynska ha trasformato in un magnifico nonfiction novel, tutto montaggio e misura che non dà tregua, un ritratto di donna desiderata e divorata. Il passo d'entrata di Wiera è memorabile, una lunga invettiva contro i parassiti: tarme (per quelle "ci vogliono i limoni"), poi blatte, zecche, ma soprattutto: "Loro. LORO. I miei nemici si moltiplicano, proliferano, con i loro insulti, le loro accuse, le loro trappole", e i pidocchi che infestavano il ghetto, i bambini pidocchiosi a cui dar rifugio. Un lungo paragrafo e il tono di Wiera è dato, il tema del libro in piena luce. È la primavera del 2003, Agata Tuszynska si è presentata all'ingresso dell'appartamento di Wiera a Parigi, in un quartiere elegante presso la torre Eiffel e la Senna, e ad accoglierla ha trovato una vecchia in vestaglia rosa che si regge a una stampella, i capelli raccolti alla bell'e meglio in uno chignon e il bagliore degli occhi ancora belli, luminosi. È diffidente e determinata, porge un registratore, si mette di traverso a impedire lo sguardo all'interno, inveisce. Per una settimana la vecchia star del ghetto e la scrittrice parleranno sullo stuoino, sedute su due sgabelli, poi un giorno Wiera tira dentro casa Agata, nel bunker. È l'inizio di un colloquio che durerà fino alla morte della Gran nel 2007, di una dedizione difficile raccontata in prima persona dalla scrittrice, alternando alla narrazione scampoli di dialoghi ma più spesso monologhi di Wiera, estratti di documenti consultati negli archivi e colloqui con altri sopravvissuti, vicini o nemici a lei, la vecchia paranoica che convive con le ombre, barricata nel suo bunker domestico. Wiera è agli ultimi passi dello spettacolo più tragico: la sua vita di sopravvissuta alla tragedia del ghetto, all'annientamento, che accuse mai provate e contraddette da altri hanno marchiato come spia, collaboratrice, "puttana della Gestapo", come qualcuno l'apostroferà al rifiuto delle proprie avances. Lo spettacolo che la Tuszynska trova nel bunker di Wiera non può lasciarla indifferente: la confusione ordinata della paranoia, le sentenze e i reportage della terribile vicenda raccolti e ordinati, memorabilia della carriera, manifesti e foto dappertutto, vecchi abiti e valigie, scritte tracciate con l'inchiostro sui muri, tra cui spicca e squilla quella in corridoio: "Aiuto! La cricca di Szpilman e Polanski vuole uccidermi! AIUTO!". Szpilman, l'idea fissa. Wiera è una vecchia che dice di cineprese nascoste nelle lampadine per spiarla e dorme con un martello e un cacciavite sotto il cuscino - ma quando parla delle accuse è chiara. La storia di Wiera è ormai un'ossessione per Agata, figlia di una sopravvissuta del ghetto. È la storia di una bella donna di vent'anni al culmine del successo, adorata e concupita dagli uomini, che si ritrova prigioniera per sedici mesi nell'inferno del ghetto. Diventa la star dello "Sztuka", il caffè dove canta accompagnata da Wladyslaw Szpilman, assunto grazie a lei, frequentato da ricchi profittatori e sgherri della polizia ebraica: "Persone a cui il destino aveva concesso una nuova opportunità, che per questo avevano combattuto, che se l'erano guadagnata, che si rifiutavano di diventare sapone", graffia Wiera, senza ipocrisia. Lei se ne è andata dal ghetto per salvarsi, non voleva salire sui treni della morte, dove sono finite la madre e le sorelle. Non ha potuto salvarle, non ha potuto aiutare nessuno, si è salvata ma il prezzo è stato alto: l'ossessione per quello scarto di fronte alla morte. Questo è il punto dello scrittore: chi ha diritto di giudicare i sopravvissuti? Wiera è stata perseguitata per tutta la vita da accuse non provate e da omissioni, come quella di Szpilman, l'altro sopravvissuto che quando la incontra nel 1945 esclama: "Non sei morta?!". Non solo non l'aiuterà a lavorare per la radio polacca dove ora comanda, ma attacca: "Ho sentito dire che collaboravi con la Gestapo". Wiera dovrà difendersi, uscirà assolta dal processo del Tribunale civico ebraico, lascerà la Polonia per Israele dove troverà ad accoglierla le stesse accuse e faticherà a lavorare nonostante sia nel pieno della maturità e bella come non mai: la foto sulla copertina del libro, che la ritrae in nero con uno scollo profondo e discreto, gli occhi socchiusi e la bella bocca che dice tutto, una sigaretta tra le dita di una mano, mostra una sorta Romy Schneider ebrea, dura. Si rifugerà a Parigi, inizierà una nuova carriera come cantante, si esibirà anche con Aznavour, canterà La vie en rose, continuerà a combattere quelle che lei dice menzogne. La donna che Agata Tuszynska ha incontrato e ascoltato, preda della paranoia ma lucida, insiste nell'accusa infamante: afferma di aver visto Szpilman col cappello della polizia ebraica trascinare una donna verso il treno della deportazione. Lo scrittore registra e riporta, non può non farlo. Le ombre intorno alla vita di Wiera Gran e alle vicende del ghetto di Varsavia non si alzeranno mai. –


Agata Tuszynska, Wiera Gran. L'accusata, Einaudi, 20 euro



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