26-08-2012 / CULT / NAZARENO GIUSTI
MILANO, 26
agosto - È un anno funesto questo 2012 per il
mondo del fumetto: dopo la scomparsa a marzo di Moebius e di Joe Kubert due settimane fa, martedì è morto, nella
sua Milano, Sergio Toppi. La cerimonia funebre si è tenuta
giovedì mattina alla chiesa di San Lorenzo, presso la Cascina Monluè.
Era malato il vecchio Sergio, però ha continuato, sino alla fine,
a lavorare. Come faceva da oltre mezzo secolo.
Se ne va un genio, lo diciamo senza giri di parole, non
per sparare là una frase di circostanza ma perchè lo abbiamo sempre creduto.
In molti hanno versato lacrime da coccodrillo in realtà buona parte del mondo del fumetto, in questi anni lo ha snobbato. Per fortuna ci sono state alcune gallerie, “Il Grifo” ma, sopratutto, “Il Giornalino” (di cui Toppi era da decenni una delle colonne portanti) e il Museo del Fumetto diretto da Angelo Nencetti che nel 2010 riuscirono a realizzare “Sulle rotte dell'immaginario” collana di 12 volumi che raccoglievano la gran parte dei lavori realizzati da Toppi.
In molti hanno versato lacrime da coccodrillo in realtà buona parte del mondo del fumetto, in questi anni lo ha snobbato. Per fortuna ci sono state alcune gallerie, “Il Grifo” ma, sopratutto, “Il Giornalino” (di cui Toppi era da decenni una delle colonne portanti) e il Museo del Fumetto diretto da Angelo Nencetti che nel 2010 riuscirono a realizzare “Sulle rotte dell'immaginario” collana di 12 volumi che raccoglievano la gran parte dei lavori realizzati da Toppi.
Un tributo doveroso a colui che, insieme a pochi altri, ha
veramente contribuito a innovare il fumetto attraverso una rivoluzione
dell'impostazione della pagina con un segno, riconoscibilissimo, fatto da una
ragnatela di tratti.
Era un signore Sergio Toppi. Un gentiluomo di “antica cortesia” che
dava sempre del lei. Timido e riservato era un omino piccolo con grandi
occhiali, un po' datati, che nascondevano due occhi curiosi.
In Francia, dove era pubblicato da Mosquito (che
aveva dato alle stampe "Sharaz-de" splendida versione de "Le Mille e
una notte" che
aveva riscosso uno strepitoso successo) durante una mostra a Parigi, nel
2003, il quotidiano “Le Figaro” lo paragonò a Klimt e Schiele (artisti che ammirava
profondamente, come si capisce bene guardando certe sue opere) e con cui poteva
"dialogare" tranquillamente.
Non voleva, però, essere chiamato artista: “lo detesto: sono disciplinato, come tutti quelli che fanno
fumetti. Non posso fare quello che mi passa la testa al mattino. Considero il
fumetto un lavoro molto artigianale, in certi casi di ottimo livello, ma sempre
artigianale. È chiaro che non siamo pelatori di patate, è un lavoro per cui
occorre una certa sensibilità, ma il fumetto rispetto a quello che viene
considerato la creazione artistica è molto più severo”.
Si riteneva, però, un artigiano, un onesto
professionista. “Il professionista deve adattarsi a quello che gli viene
richiesto, entro certi limiti. Può anche dire di no. Se accetta una cosa è
tenuto a farla nel modo migliore. Come in tutti i lavori, ci sono delle cose
che piacciono e altre meno, però bisogna cercare di adeguarsi alle richieste
della clientela e dell'editore. Chi fa questo lavoro lo fa perché gli piace, si
presume che anche dal solo fatto di disegnare possa ricavare piacere. Quando
c'è stata la possibilità di lavorare a modo nostro l'abbiamo fatto, come nel
caso di un'organizzazione particolare della pagina. Quando non è possibile, non
lo si fa. Questa è la regola delle cose. Il discorso che facevo prima, per chi
lavora professionalmente ci sono delle situazioni in cui bisogna adattarsi”.
Aveva iniziato a studiare medicina poi si era accorto
che quella non era la sua strada. Aveva iniziato a lavorare come illustratore
per la Utet e
per le pubblicità animate dei fratelli Pagot. Al fumetto arrivò nel 1966 sulle
pagine del glorioso“Corriere dei
Piccoli” dove
diede vita a "Mago Zurlì", su testi di Carlo Triberti, ispirato al personaggio
interpretato sugli schermi televisivi dal presentatore Cino Tortorella. Poi sulle illustrò le sceneggiature di Milo
Milani che raccontavano a fumetti fatti di cronaca, eventi storici, o
adattamenti di grandi romanzi)
Lo stesso tipo di storie furono affrontate su “Il Messaggero dei ragazzi” dove, padreGiovanni.Colasanti (direttore del periodico), gli diede
maggiore libertà. Lì cominciò veramente a nascere il suo stile inconfondibile e
iniziò a sperimentare un nuovo modo di impostare la pagina.
Poi "Sgt. Kirk", la collaborazione a "La storia
d'Italia a fumetti" di Enzo Biagi ma,
sopratutto, negli anni ottanta straordinari racconti brevi interamente suoi per
le riviste "Orient Express", "Alter Alter", "Corto
Maltese", "Linus". Autentiche
perle.
Ricordava malvolentieri gli anni della guerra. “Io sono del '32 e la guerra l'ho subita in pieno. Ho vissuto
sotto i bombardamenti su Milano. Poi dovemmo sfollare in Valdossola dove ci
avevano detto che avremmo trovato un po' di tranquillità. Invece lì ebbi modo
di assistere alle sparatorie tra partigiani e nazifascisti. Conobbi per la
prima volta la paura di morire, furono anni di sofferenza e di fame”.
Uno dei suoi ricordi più vivi, e più tristi, del primo dopoguerra
era il buio per le strade in cui mancava la luce corrente. In quel buio,
probabilmente, iniziarono a nascere le sue immagini.
Il suo primo approccio con il fumetto avvenne a una
bancarella, quasi per caso. Sfogliando un numero di "Asso di Picche" rimase colpito dalla qualità dei
disegni di due autori in particolare, Hugo Pratt e Dino Battaglia. “Ero giovane e non avevo una grande cultura fumettistica. Qualche
volta mi capitava di leggere Flash Gordon, ma non ho mai avuto una passione
viscerale per i fumetti, così come a tutt'oggi devo dire che non ne leggo” confessava.
Leggeva invece molta letteratura: Rigoni Stern, Faulkner, Hemingway, Tomasi di Lampedusa.
Ma sopratutto Buzzati di cui amava i racconti
brevi.
“Me ne colpì uno, in particolare: il famoso
“Il Mantello” dove Buzzati per descrivere un tetro pomeriggio invernale usa due
parole: “Volavano cornacchie”. Due semplici parole con cui si dava il senso di
un atmosfera cupa e inquietante che anticipavano ciò che sarebbe accaduto. Una
sapienza letteraria straordinaria sopratutto sul piano della sintesi”.
Nel cinema amava Kurosawa, Germi, Olmi e Monicelli. Lo
aveva affascinato la visione di “Edipo re” di Pasolini per l'atmosfera senza tempo che il
poeta era riuscito a trasmettere.
“In quell'epoca- spiegò nel 2009
a un convegno a Bologna in occasione della mostra"Toppi. Il
segno della Storia"- imperversavano i peplum, film con una
classicità fasulla, tratta da un certo semplicismo che hanno gli americani per
quanto riguarda la nostra storia antica. Mi colpì di Pasolini la capacità
di ricreare un clima arcaico, lontanissimo, senza epoca, ricreando un'atmosfera
magica. Senza stereotipizzare: per esempio: quando Edipo interroa la Sfinge è una specie di
mostro informe, un idolo paleo africano”.
Una capacità che riuscirà a riportare nei suoi fumetti. La
capacità evocativa e d'atmosfera di Toppi era, infatti, unica. Un suo
personaggio sia esso un cacciatore dell'Alaska, un guerriero africano, uno
stregone atzeco o un cercatore d'oro del Wisconsin suggerisce una serie di
considerazioni al lettore che sente la differenza con gli stessi
personaggi disegnati da altri autori.
“Se devo disegnare un fuorilegge australiano
non gli farò mai un paio di stivali lucidi perchè per la vita che fa avrà
scarpacce magari più grandi, coperte di polvere piene di macchie che danno
l'idea di un individuo che cammina nella polvere e nell'acqua. Il cappello sarà
sbeccato, sporco”.
Era molto importante per lui la documentazione , la
ricerca anche se poi, alla fine, reinterpretava il tutto, rimanendo però fedele
alla realtà.
“Non si crea nulla dal nulla”diceva.
“Per esempio non è detto che una storia del
medioevo debba essere pignola, uno deve arrivare a crearsi un suo
medioevo, completamente inventato, ma credibile. Vestiti, armature,
architetture è importante conoscerle per rielaborarle. Ora, a questo si arriva
solo guardandosi molto intorno. Uno può fare anche una commistione di generi,
però prima bisogna aver capito bene le cose”.
Si definiva un “borghese”. Dal
suo tavolo da disegno della grigia Milano per più di mezzo secolo aveva
viaggiato nel mondo e nel tempo.
“Tutto quello che esula dall'alzarsi la
mattina, farsi la barba e bersi il caffè è avventura. Quella serie di ambienti,
di situazioni, di atmosfere di periodi che solleticano la nostra fantasia.
Magari ad una persona come potrei essere io, il classico borghese, piace
pensare a delle avventure nei posti esotici. L'avventura è questo. Quindi noi
che abbiamo la possibilità di ricreare delle storie lo facciamo con piacere.
Anche il lavoro è avventura”.
Però, aveva fatto anche viaggi reali, nei luoghi che lo
affascinavano.
“I posti che mi premeva di vedere, li ho
visti. Il Centro America me lo sono visitato, non dico benissimo, perché è
grande, ma quel che ho visto mi ha soddisfatto moltissimo, Il Messico. Sono
posti completamente diversi. Poi mi ha interessato vedere il New England. Voi
forse non l'avete sentito nominare, ma per quelli della nostra generazione,
specialmente per i disegnatori come me, c'era un libro di culto: Passaggio a
Nord Ovest, che si svolgeva in una parte dell'America Orientale, nel New
England. Ho sempre desiderato vedere due o tre posti che vi erano descritti.
Quando l'ho letto da ragazzo era il mio libro dei sogni. Una storia ambientata
nel '700, con guerre indiane, francesi e inglesi, foreste e laghi. Quando l'ho
visto è stata una grande emozione. Pratt ha ambientato lì tutti i suoi
racconti. Era una strana epoca dove gli europei combattevano in foreste
incredibili con il tricorno e la parrucca bianca insieme agli indiani rapati
con il ciuffetto in testa”.
Il suo non era certo un segno "bonelliano".
Nonostante questo, però, per l'allora Cepim realizzò due splendidi
episodi della collana “Un uomo,
un'avventura”:“L’uomo del Nilo” (le gesta di Gordon Pascià nella guerra contro il Mahdi sudanese)
e “L’uomo delle paludi” (sui seminoles della Florida) oltre a
realizzare due avventure di Nick Raider e il mitico numero 11 di Julia.
Sergio Bonelli,
era un suo grande ammiratore. Nella presentazione di una rassegna di tavole
toppiane alla galleria milanese L’Agrifoglio, affermò: “Lo confesso, io a lui sono anche debitore di una specie di
passaporto internazionale. Quando, da perfetto sconosciuto quale sono, grazie
al cielo, al di fuori del mio piccolo mondo fumettistico italiano, mi presento
a qualche manifestazione dedicata ai comics (a New York come a Buenos Aires, a
Barcellona come ad Angoulême), mi basta una semplice dichiarazione per
suscitare l’interesse e la stima dei miei interlocutori: “Mi chiamo Sergio Bonelli,
pubblico fumetti in Italia e sono l’editore di Sergio Toppi”.
Altro suo grande estimatore era Oreste del Buono,
che di lui diceva: “Dalle sue tavole così incise e così bulinate, dalla ricchezza
traboccante delle sue storie misteriose e tragiche ci viene costantemente il
conforto che può esistere un uomo così responsabile, così pronto a rispettare
il suo impegno. Come una religione. Il suo lavoro tende alla perfezione, per
semplice senso del dovere. Il dovere di essere sempre più bravo, il dovere di
continuare ad imparare, perché non si finisce mai di d'imparare a questo mondo,
specie per chi si è assunto l'incarico di creare immagini, di mettere la
propria fantasia e le proprie risorse al servizio degli altri”.
Lo sapeva bene Sergio e così ha fatto, sino alla fine. Con
l'umiltà e la modestia che è dei grandi.
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