maria, angelina e rosalia di girolamo

lunedì 6 agosto 2012

Io, Saly Diarra sassarese col Senegal nel cuore




 

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di Giovanna Peru
L’attrice senegalese Saly Diarra in una scena del film di Salvatore Mereu «Tajabone»
 «Quando Mereu mi ha telefonato per dirmi: «Andiamo a Venezia» ho provato una grande emozione. Cavolo ho pensato! Mi sono sentita importante come una vera attrice. Quando poi al Lido in albergo mi hanno assegnato una stanza tutta per me, bè allora mi sono sentita proprio una diva. E' stata un'esperienza davvero entusiasmante.  Lei è Saly Diarra una bella signora senegalese di origine e sassarese di adozione. Qui Sali è arrivata nel 1993, qui si è sposata e ha avuti i suoi due figli di 16 e 15 anni nati dal marito, ora ex, che l'ha portata qui dal suo amato Senegal dove si erano conosciuti qualche anno prima. Qui ha studiato e grazie ai corsi delle 150 ore ha preso la terza media. Lei è autrice e interprete della canzone «Donne» che farà da colonna sonora al video che stasera sarà proiettato in piazza Castello in occasione della manifestazione voluta dall'associazione femminile: «Se non ora quando» e che a cinque mesi dalla prima manifestazione col governo ribaltato e un'Italia a gambe per aria si chiamerà: «Se non le donne chi».  L'ha scritto e composto lei, straniera in terra sarda, quello che sarà l'inno della protesta e della rivendicazione dei diritti delle donne qui come altrove nelle altre piazze italiane.  Lei, donna di colore, madre e immigrata. Un simbolo della precarietà femminile, un simbolo della marginalità nella quale è confinata l'altra metà del cielo in Italia.  - E' così anche da voi?  «In parte sì, anche se anche da noi molte cose stanno cambiando, la crisi anche in Senegal ha aperto nuove porte, le donne sono costrette a lavorare, i ruoli sono cambiati. Si sono avvicinati: non c'è più chi resta a casa coi figli (anche quando le mogli sono più di una» e chi porta i soldi lavorando fuori. Per forza i ruoli si sono avvicinati, la vita si deve condividere, fuori e dentro casa».  «E poi questa divisione è destinata a finire: le donne se la sono trovata, costruita nei secoli e ora, anche se tante cose sono cambiate, resiste quel gradino che le blocca e impedisce il cammino. Invece la strada va percorsa insieme in casa e nel lavoro. Non siamo diversi: le capacità sono uguali».  - Lei ha due figli un maschio e una femmina come li educa?  «Allo stesso modo, studiano entrambi, fanno il liceo, classico il maschio e scientifico la femmina (che studia anche chitarra classica) e a casa fanno le stesse cose, anzi il maschio sa cucinare, è bravo, mentre la femmina no, è proprio negata».  - E lei come vede il suo futuro? Quali sono le sue aspirazioni?  «Spero sempre che il telefono squilli, che una voce dall'altra parte mi chiami per affidarmi una parte in qualche film, magari ancora Mereu, ma la mia vera aspirazione, la mia passione è e resta la musica. La musica è il mio riscatto, il futuro, la mia vita. Prima avevo paura, avevo molte insicurezze. Cercavo strumentisti che mi aiutassero nella mia strada, ma era difficile, gli arrangiamenti sono diversi, la mia musica esula dai canoni classici. Ora ho capito che posso farcela da sola, posso suonare io gli strumenti che servono. Io canto. Non ho bisogno degli altri. Ho solo bisogno di studiare, di crescere. So che ce la farò.  - Nostalgia? Bè, sì un po' sì, anche se la mia vita, e soprattutto quella dei miei figli ora è qui. Ma in Senegal è tutta un'altra aria, c'è solidarietà, amicizia, fratellanza. Insomma è un'altra vita. - E allora?  Allora niente, spero, una volta in pensione di tornare là.  - Intanto? «Intanto suono, canto, studio e faccio lavoretti che mi aiutano a vivere: faccio massaggi curativi, ho fatto un corso, sono brava. Sono inserita qui anche se mi sento straniera, sono straniera ma una straniera di casa. Sono coscente di far parte di due culture e mi dispiace, mi dispiace davvero di non essere riuscita a insegnare la mia lingua ai miei figli. Che sì, il francese lo parlano perché lo hanno studiato a scuola, ma non conoscono la lingua dei miei nonni che erano del Mali e parlavano il Bambarà, una vera e propria lingua che non sono sono stata in grado di tramandare. No, non è un rifiuto e che proprio non ci sono riuscita. E' forse una questione psicologica, tutta mia. Mi dispiace perché quando andranno in Senegal anche solo in vacanza, almeno a casa mia con la nonna e gli zii (ho sei sorelle e un fratello) avranno difficoltà. Il Wolof, la lingua nazionale senegalese non è difficile, lo capiranno, ma il Bambarà no, è un'altra cosa».  - Lei donna di colore, immigrata, separata come si sente in Italia?  «Non so, non ci penso, Sono una persona e basta. Affronto la vita semplicemente giorno per giorno».  - Ha una figlia femmina, se potesse decidere per lei il suo futuro cosa le augurerebbe, un buon matrimonio o un buon lavoro?  «Devo proprio scegliere? Solo una cosa? Bè allora scelgo il lavoro»
11 dicembre 2011


              






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