Lui, Gennarino, di cani ne aveva una muta ai suoi piedi. Tutti i bastardi del paese, bestiacce inguardabili per la loro bruttezza e magrezza, inavvicinabili per quella paura che ti sovviene dentro quando incontri la miseria cruda e temi ti si rivolti contro. Gli si affollavano intorno sui gradini della chiesa, dove Gennarino sostava. Di giorno e di notte, con il sole che spacca le pietre e calcina gli uomini, o col vento e il freddo e la pioggia che fa sentire le ossa come pasta lievitata male. Lui era lì. Lui e i suoi maledetti cani.
Gennarino non ci era nato santo. Ci era diventato. Forse è così che succede. Fino ai quindici anni era un ragazzetto qualunque di paese, che andava malvolentieri a scuola e preferiva giocare per strada, far scorrerie in campagna a rubare la frutta secondo stagione, o d’estate passare le giornate al mare fino al tramonto. Neanche la vocazione aveva, che per chierichetto non era portato, e all’oratorio passava solo per tirare qualche calcio al pallone, e don Guido, il parroco, ogni volta che lo incontrava gli tirava le orecchie. Poi era andato a bottega per guadagnare qualche lira, che la famiglia era povera e ne aveva bisogno. Aveva scelto mastro Briscola, che di mestiere faceva il ciabattino ma era più portato per il gioco delle carte. Il bugigattolo dove esercitava tra lesine, colle e suole, funzionava meglio per lunghe partite di tressette che per riparare vecchie scarpe, tanto ormai chi le riparava più le vecchie scarpe? Lì Gennarino stava bene: anche se il mestiere lo imparava poco, i giocatori gli chiedevano di sbrigare i servizi, le commissioni, che so, comprare le sigarette, prendere i caffè per tutti, una bottiglia di vino o il giornale, giocare i numeri al lotto, oppure abbassare la saracinesca del macellaio che mo’ non poteva proprio andarci che c’era la rivincita. Un ragazzo serio e affidabile, cui benvolere.
La combriccola dei giocatori accaniti era diventata la sua famiglia, che a casa era rimasta solo la madre, il padre gli era morto che era piccolo, e ora che i fratelli se n’erano andati lontano a trovare lavoro, chi a Milano chi in Germania, doveva esserci una tristezza da stringerti forte dentro a tornarci. Più stava lontano da casa e più stava felice. Ci arrivò ai diciotto anni così, che ormai era uomo fatto.
Sarà stato per quell’affetto che gli portava, che quando mastro Briscola si ammalò pure Gennarino cadde malato, che i medici non ci capivano niente, febbre non ne aveva ma stava spossato. Mastro Briscola non si riprese e a Gennarino gli venne l’esaurimento nervoso – o, almeno, così diagnosticarono i dottori. Ne uscì santo. Forse è così che succede.
Cominciò a parlare delle sue stimmate e mostrava le mani intatte, le palme e i dorsi – «Le vedete? Eccole lì, le vedete?» – e certe volte tirava su i pantaloni fino alle ginocchia, a scoprirle – «È il volto di Gesù, mi è venuto stanotte, tutto in una volta, non prima i capelli o il naso, no, tutto insieme» – o se li sfilava proprio i pantaloni, e le scarpe e le calze perché le stimmate erano anche sui piedi – «Non a tutti vengono anche sui piedi, non è per tutti vederle». Perché il criterio suo era questo: per essere, le stimmate c’erano; ma per vederle dovevi credere, e se non le vedevi voleva dire che non credevi abbastanza.
Bighellonava davanti al bugigattolo di mastro Briscola, che ormai era come la sua grotta da eremita, o per strada, o in piazza, o sul sagrato della chiesa, quando la domenica c’era la folla della domenica, o le sere del Corpus Domini o del Rosario.
Il paese è feroce, si sa. E il nostro – una «ridente cittadina» in Calabria, sul Tirreno, così recitavano i dépliant – non era diverso, perché mai avrebbe dovuto? Così, tra i ragazzini che iniziarono a tirargli pietre alla porta e i più adulti che facevano finta di ascoltarlo e poi lo prendevano in giro o gli combinavano scherzi atroci, la vita di Gennarino divenne impossibile.
Ebbe un altro esaurimento nervoso – o almeno così sostennero i medici – e stavolta lo ricoverarono. Lo imbottirono di sedativi che bastavano per un cavallo furioso. Si gonfiò, un batalocco grande e grosso che da solo riempiva mezzo bugigattolo. E iniziò il suo calvario. Fuori e dentro gli ospedali per mesi, per anni. Lo rimandavano al paese, poi se lo riprendevano, poi lo rimandavano. Ogni volta tornava più gonfio, quasi non si riconosceva più. Finimmo col non pensarci più, perché non si vedeva per lunghi periodi, poi quando stava in paese si chiudeva nel bugigattolo che aveva ereditato, poi scompariva di nuovo.
Forse fu l’evidente crollo della sua condizione che smosse a compassione. E poi, davvero, non dava fastidio a nessuno. Se ti fermavi, era un profluvio di chiacchiere sconnesse, ma se tiravi diritto non si dava pena. Così, c’era chi gli comprava dei panini, chi la pizza, chi gli lasciava una busta di frutta davanti la porta, e chi pagava al bar la cocacola di cui andava ghiotto. E don Guido si diede da fare per procurargli dei panni, che si cambiasse almeno a ogni stagione, e perché la carità di mastro Bruno, il barbiere, fosse così ampia da comprendere anche un taglio di capelli e una barba ogni tanto gratuitamente. I fratelli non erano più tornati, neanche per le vacanze d’estate e la madre non aveva più retto al dolore. Gennarino era ormai solo. Fu a quel tempo che arrivarono i cani. Per primo arrivò uno tutto nero come la pece, grosso come un diavolo dell’inferno, poi un altro piccolo e tutto bianco, poi tutti gli altri. Con i cani, venne pure un certo alone di santità certificata. Le bestie, si sa, hanno un istinto per queste cose. E san Rocco è un santo veneratissimo dalle nostre parti.
Forse solo perché non avevo mai scherzato troppo sul suo conto, con me Gennarino era tenerissimo. Non che mi dispensasse dalla visione delle stimmate presunte. Si proponeva come una sorta di emissario di san Francesco di Paola, di sant’Antonio, di santa Rita, forse per avere maggiore autorevolezza riguardo alle cose che poi raccontava. Magari succede così anche fra santi, come fra i cristiani qualsiasi, che i più anziani si fanno mallevadori dei nuovi arrivati, vai a sapere. Con quei santi – mi assicurava – aveva quotidiani colloqui. Loro gli dicevano sempre qualcosa riguardo ai destini dell’umanità, come se lui fosse una sorta di Bernadette o uno dei tre pastorelli di Fatima. Ma con me riusciva a parlare anche d’altro, oltre a dire dei suoi incontri segreti – «Ieri è passata la sorella di papa Ratzinger, è venuta per trovarmi» – e delle sue oscure paure – «Lo vedi quello? Quello acchiappa i flagellati e li porta a Roma». Era aggiornatissimo perché tra le eredità di mastro Briscola s’era ritrovato pure un televisore, i cui telegiornali erano l’unica cosa riuscisse a trattenerlo. Il televisore era vecchio e non si vedeva quasi più niente, però l’audio era ancora ottimo. La chiesa e il bugigattolo, che erano tutto il suo percorso, si trovavano entrambi proprio a pochi passi da casa mia – e così era inevitabile incontrarlo a ogni occasione. M’intratteneva con le sue teorie sulla sovrappopolazione («Bisogna andarcene tutti in Australia, nei deserti tra gli aborigeni, siamo troppi qui in Europa») o sui buchi neri («C’è come un risucchio, e poi veniamo sputati da un’altra parte») o sulle questioni del lavoro («Il governo deve dare lavoro ai giovani, sono loro il futuro») che, come ognuno può capire, mi lasciavano sempre perplesso sulle sue doti di visionario. Mi rassicurava affinché mi sentissi sotto la sua protezione – lui “apriva” le persone, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse – e, nel caso, potessi spenderla per una qualche raccomandazione, e dio solo sa se non ne avessi bisogno in quel periodo. Infine, mi salutava sempre dopo avermi spillato l’ennesimo euro gridandomi dietro un «Ti voglio bene, Lanfranco». Anch’io, gli rispondevo. Ed era vero. Come potevo voler bene a una palma sul corso del paese o all’affanno delle rondini che ogni anno tornavano per i loro nidi nelle crepe del castello quasi tutto diroccato, insomma a una consuetudine dello sguardo. Che forse sono poi le cose cui davvero ci affezioniamo e che ci lasciano smarriti quando tardano o vengono a mancare.
Per via di questa speciale confidenza non fui del tutto sorpreso che una mattina mi chiamasse in disparte invitandomi nel suo bugigattolo. «Vorrei fare un pellegrinaggio», mi disse, e io immaginai che si trattasse di partecipare a una colletta – stavolta sarebbe stato qualcosa di più del solito euro – per consentirglielo. «Vorrei andare da padre Annibale di Francia, a Messina. È potente, padre Annibale».
In verità, a me Annibale di Francia non era mai piaciuto granché. Benché ci fosse poco da dire sulla sua meritoria opera di accogliere nella Casa dei poverelli i ragazzi per strada, abbandonati da madri e padri – e Messina sul finire dell’Ottocento, porto commerciale e città di traffici e di truppe, ne avesse proprio tanti, di ragazzi per strada –, condannati a crescere in un destino già segnato, e dare loro un mestiere perché potessero affrontare la vita con dignità, non mi era mai andato giù quel suo catastrofismo apocalittico, quella sua profezia di sventura sulla città. Aveva predicato, padre Annibale di Francia, contro la dissolutezza dei costumi dei suoi concittadini, massoni e socialisti, fino a pregare perché Dio li punisse come meritavano. Poi, c’era stato il terremoto del 1908, uno dei più devastanti che la storia abbia registrato. Non restò in piedi quasi più nulla della città. Tranne
Una disputa teologica era fuori luogo, con Gennarino. Non avrei potuto competere con la sua fede. Mi preoccupai, invece, perché questo suo desiderio potesse implicare una sua virata visionaria verso le sciagure, verso un tono di predicazione che lo avrebbe trasformato più in un profeta agitatore da strada – qualcuno che magari sarebbe piaciuto a Flannery O’Connor – che in un quieto santo di paese. Quando si attaccano i costumi degli uomini si predica sempre su una cassetta di birra in un vicolo di malevolenza.
La sua richiesta, però, era più semplice. Voleva solo andare in treno. «Non sono mai andato in treno», disse. E benché sembrasse incredibile, a pensarci bene Gennarino non si era mai mosso dal paese. Certo, noi abbiamo una stazione, o meglio: noi abbiamo ancora dei binari e avevamo una stazione. Di quelle piccole, linde e tinteggiate di bianco, con le aiuole dei fiori, dove abitava tutta la famiglia del capostazione sopra la biglietteria. E d’inverno la mattina presto era piena di pendolari, che con i treni regionali andavano al lavoro e a scuola nei paesi vicini o arrivavano portando il sale di contrabbando e le ceste e altre merci da vendere al mercato, e d’estate venivano le famiglie per i bagni, con i salvagente e le pagnotte e i fiaschi di vino. E la notte ci passava l’espresso per Torino, senza cuccette ma potevi allungare i sedili o sdraiarti se trovavi posto che però lo si prendeva pure per andare a Roma che ci arrivava alle sei e zerotre in punto ed era buono se qualche parente era in ospedale oppure ci faceva il militare e volevi andare a trovarlo e portargli un po’ di conforto. Con le salsicce. C’erano famiglie intere di ferrovieri, e il padre e il figlio e lo zio e il cugino, che abitavano tutti in uno stesso quartiere e si davano un tono d’importanza e misterioso, che sapevano cose inimmaginabili per noi comuni mortali, orari precisi di passaggio e come si manovravano gli scambi e il significato delle campanelle, e delle leve e delle lucine sui quadri di comando. Poi, lentamente ma inesorabilmente la stazione era stata dismessa, prima la biglietteria, poi il capostazione, poi la linea che i treni passavano da un’altra parte, e sui binari ci crescevano ormai le erbacce e a noi era rimasto un display su un muro dove, da alcune crepe, ogni anno le piante di cappero gettavano fiori splendidi e ci si andava ora per quello, a guardare i capperi, mica il display.
Avevamo finito, in paese, per dividere il tempo storico che ci apparteneva in: «Quando c’era la stazione» e «Da quando non c’è più la stazione», ogni territorio in fondo si arrangia con il suo post-qualcosa. Gennarino era della generazione «Da quando non c’è più la stazione». Forse si era spostato in automobile, e forse aveva preso qualche pullman, per le sue visite e i suoi controlli. Però, in treno, no, non era mai stato. «Così, prendo pure la nave. Non sono mai andato su una nave. E su un treno nella pancia della nave. Come Giona, saremo risputati fuori dal ventre della balena», mi disse. In qualche modo, mi sentii scelto per questa sua impresa, e considerai secondario che ci fosse una ragionevolezza, e nulla di speciale, nell’averlo chiesto proprio a me in quanto io a Messina ci sono nato e sarei stato la guida giusta. Era un’elezione, la mia. E sarei stato testimone di questo suo pellegrinaggio. Della scoperta del treno. E della nave, dentro la cui pancia avremmo attraversato il mare.
Accettai la proposta di Gennarino, lasciando perplessa mia moglie, e fissammo un giorno della settimana successiva per il nostro viaggio. C’era ormai solo un treno che si fermava alla nostra stazione: un regionale da Paola delle sei e cinquantotto. Ci avrebbe portato fino a Rosarno, solo quattro minuti, fine corsa, e poi da lì ne avremmo preso un altro fino a Villa San Giovanni, e poi il traghetto per
I giorni che precedettero il nostro viaggio si trasformarono in un tormento. Gennarino era talmente felice che non si tratteneva dal raccontare a tutti della prossima partenza. E del fatto che io avessi deciso di accompagnarlo, il che se per un verso tranquillizzava i compaesani su Gennarino, che non si era mai mosso e aveva qualcuno che poteva badargli, per un altro li inquietava su me medesimo. «Come ti è saltato in mente di fare sta cosa?», mi chiedevano. «Non ti sarai ammattito anche tu?», m’interrogavano. «Cristo santo, un pellegrinaggio da Annibale di Francia: tutto mi sarei aspettato meno che diventassi un fondamentalista cristiano», m’intimavano. All’inizio, provavo a spiegare, poi le mie difese si affievolirono, e infine non me ne importò più nulla: che pensassero quel che volevano. Una mia cognata, donna pratica, che organizza viaggi di fedeli verso le classiche mete – San Giovanni Rotondo per padre Pio, Assisi per san Francesco, Cascia per santa Rita – mi chiamò per chiedermi di prendere in considerazione l’opportunità di fare un pullman – «Una quarantina di posti, non di più, partenza alle cinque ritorno l’indomani alle venti, con mezza pensione in albergo, e arriviamo fino alla Madonna di Tindari o passiamo dall’Ecce homo di Calvaruso. Ci metto tre giorni a prepararlo. Ovviamente per voi il viaggio è gratis, e magari ti esce una carta da cento». Declinai, cortesemente. Per soprammercato, a Gennarino era comparsa un’altra stimmata, o almeno così lui sosteneva, che aveva la forma di un pesce – «È un segno», andava ripetendo – che oltre a ricordare i primordi di una comunità evangelica andava interpretato come un destino verso il mare.
La partenza, che avevo immaginato e avrei preferito di soppiatto, si trasformò così in una processione. Alle sei e quindici, alla colonnina di benzina da dove parte la scorciatoia che porta giù verso la stazione si presentarono tutti gli ubriaconi e gli sfaccendati del paese, manco si fossero passati la voce. C’erano pure i manovali polacchi e rumeni che cercano la giornata, se devi buttare una soletta o sistemare un muretto, insieme a qualche paesano per i lavori di campagna, quando le olive, quando le arance, che la mattina stanno sempre lì. E donna Melina, la signora Gianna, Concetta, un’altra mia cognata, e altre tre quattro donne che snocciolano il rosario tutte le sante mattine e tutte le sante sere. Gennarino era trasandato come al solito, ma una qualche luce doveva ispirarlo. Sembrava lo stesso, eppure diverso. Sul brusio generale, gridò: «Andiamo». E come per incanto tutti quegli uomini e quelle donne si zittirono e iniziarono a seguirlo. Tutti giù per la scarpata, verso la stazione, con i cani di Gennarino che facevano avanti e indietro lungo la fila, come a controllare il gregge, che restasse unito, lui davanti e io che gli correvo dietro a dirgli – «Non ci vengo, Gennarino, con tutti sti matti, non ci vengo. Sarò sepolto dal ridicolo per il resto della mia vita. Era una cosa nostra, mia e tua, basta». «Abbi fede, sono tutti aperti», mi disse. E io non sapevo se era una profezia delle sue o un pensiero del momento. Non sapevo cosa fare, avevo promesso. In più, ci si mise pure donna Melina, che al mulino – a quel che resta di uno dei vecchi mulini che si trovano lungo il percorso – iniziò a intonare una litania, con le altre beghine che rispondevano e i cani che iniziarono a ululare. Oh Gesù. Sembravamo un mucchio di pezzenti verso Gerusalemme. Chissà, forse andavano proprio così le cose. Fu il pensiero di questa dimensione storica a tranquillizzarmi: si sa, basta poco agli uomini di ragione come me per stare tranquilli e accettare l’inverosimile, uno scenario, una cornice, un qualche rimando lontano. Andiamo, mi dissi.
Alle sei e quarantadue eravamo alla stazione. Qualcuno lo avevamo perso per strada, qualcuno doveva essere andato in campagna a raccogliere borraggine e cicoria, eravamo rimasti una dozzina, escluso i cani. La litania continuava, come un rumore di sottofondo. Gennarino alzò le mani congiunte al cielo, e non disse nulla. Restò così una decina di minuti, in un silenzio intorno che manco i passeri si sentivano e le allodole sulle palme. Le bestie, si sa. Ci sorprese la campanella, che annunciava l’arrivo del regionale. Quando la littorina – era solo un vagone – arrivò e il controllore scese un attimo, ci trovò così. Io mi ero messo un po’ in disparte, come se non avessi nulla a che fare con quella masnada, ma lui guardava me, dritto negli occhi, cercando una risposta che non arrivò, feci spallucce e girai lo sguardo da un’altra parte. Si tradisce pure così, per un nonnulla.
Poi, Gennarino parlò alla folla: «Andate ora». E quelli, come per incanto, se ne andarono, riprendendo la scorciatoia, sempre mormorando una litania, e sempre con i cani dietro, a controllare il gregge, dopo che si erano messi a ululare al treno quando aveva preso a muoversi, come per un saluto.
Fino a Rosarno, solo quattro minuti, Gennarino non disse nulla, era tutto assorto. Fine corsa, scendiamo e aspettiamo il Tamburello delle sette e dodici che ci porterà a Villa. Puntuale, il treno era affollato, ragazzi che forse studiavano o forse lavoravano da qualche parte per quattro soldi, donne verso un qualche impiego o una qualche pratica da sbrigare, zingari con gli zaini zeppi di cose superflue, accendini per cucina, molle colorate, acchiappamosche, e bengalesi con le loro tavole di ambulanti, e africani con tovaglie e strofinacci e copridivani e federe per cuscini.
Gennarino si trasformò. Voleva dire una parola a tutti e si muoveva freneticamente nel corridoio. Raccontava del suo pellegrinaggio «Vado da Annibale di Francia». Magari fu quel nome, non so, certo è che i nordafricani stavano a sentirlo. «Annibale, sicuro», gli dicevano loro, «grande uomo. Saluta lui per noi». Gennarino era raggiante. Si voltava verso di me, perché fossi testimone, perché potessi raccontare quello che vedevo. Incoraggiato, cominciò a dire delle sue stimmate, e mostrava loro le mani, poi iniziò a far vedere le ginocchia, poi si calò i pantaloni, poi tirò su la maglietta perché vedessero anche l’ultima, il pesce. Non so bene cosa capissero i nordafricani, fatto sta che anche loro iniziarono a spogliarsi, chi a mostrare la schiena, chi la pancia, e là si vedevano le loro stimmate: dovevano essere stati colpi di frusta o bruciature o ferite di qualcosa, ma quasi tutti avevano cicatrici orribili sul corpo. Gennarino le toccava, seguiva con il dito ogni percorso, come riuscisse a intravedere un disegno, una trama. E forse era così. Ammutolii, commosso. Mi sembrò di assistere a un miracolo, o a qualcosa di simile, anche se non capivo bene di cosa si trattasse, che magari sono così i miracoli, bizzarri e improvvisi, che capitano dove meno te lo aspetti, il vagone di un treno.
Il vagone era diventato ormai un circo, e a ogni fermata salivano altri zingari, altre cianfrusaglie, altri studenti, altre donne che andavano a sbrigare una pratica o al loro lavoro, e altri nordafricani che dopo uno scambio di battute ci mettevano un attimo a tirare su le loro magliette e a mostrare altre cicatrici, altre stimmate. E Gennarino subito lì, a toccare, a riconoscere un segno. All’inizio i più silenziosi erano i bengalesi – gli zingari si facevano i fatti loro come se ne avessero viste troppe per impressionarsi di sta roba qui – poi visto l’andazzo anche loro tiravano giù i pantaloni o si toglievano le scarpe. Arrivammo così a Villa. E io sospirai di sollievo, scendendo. Quelli che non scesero con noi e proseguivano verso Reggio si affacciarono tutti dai finestrini: «Annibale, Insciallah», gridarono. «Vedi, mi disse Gennarino, è proprio un santo potente, lo conoscono in tutto il mondo». Come dubitarne. Ormai mi aspettavo sbucassero all’improvviso gli elefanti di Cartagine.
La nave era pronta, e partimmo quasi subito, come avesse aspettato noi, il treno lo aveva già caricato. Arrivati a Messina, pensai di muoverci di buona lena verso la sua meta. D’altronde lui non aveva occhi per vetrine, fossero di pasticceria o di vestiti, ci fossero focacce e arancini in bella mostra o l’elaborata frutta di martorana. A lui interessava solo Annibale. E là ci dirigemmo. Dove c’era
Cercai con voce suadente di convincerlo a venir via, che spostarlo non era facile, grosso com’era, che neppure tre suore del divino zelo, benché ben piantate, riuscirono a smuoverlo di un millimetro. Poi si chetò. Salutò tutti e ci avviammo verso l’uscita. Di botto si girò di nuovo verso la statua gridando: «Annibale, Insciallah». Era troppo. Lo strattonai.
Lo rimbrottavo, mentre tornavamo verso
Con questa nuova muta di cani dietro – io pregavo intanto di non incontrare nessuno che mi conoscesse, un vecchio amico, un parente – arrivammo alla Stazione marittima. Forse era il caso di lasciarli lì quei cani, di parlarci e fare capire che non potevano venire con noi.
«Gliel’hai detto?», chiesi a Gennarino.
«Cosa?».
«Che non possono salire con noi sulla nave. Devi spiegarglielo. Devono restare qua», gli dissi.
«Ma io non vengo».
«Come, non vieni?», cominciai a preoccuparmi. Cosa avrei detto al paese? Mi avrebbero tacciato di irresponsabilità. Non era cosa.
«È bello il ponte», mi disse.
«Che ponte, scusa? Non lo faranno mai il ponte. È da quando sono nato che sento parlare del ponte. E non so neppure se mi dispiaccia che non lo facciano mai».
«Ci passano i treni, e le automobili e i camion. E le persone. Sopra le acque». Guardava quel tratto di mare come ci fosse davvero il ponte, come solo lui lo vedesse. Era come i buchi neri e l’Australia e il lavoro per i giovani, non volevo mettermi a discutere di idiozie.
«Vai», mi disse. «Devi tornare, tua moglie ti aspetta».
«E tu, Gennarino, che fai?».
«Mi ha stancato il treno. Mi è bastato. Io vengo a piedi».
«A piedi?».
«Sulle acque. Camminando. Il ponte. Posso farcela. Tu vai».
Con un peso nel cuore, pensai che non potevo battermi contro la sua volontà. Avrei dovuto chiamare qualcuno, la polizia, il pronto soccorso. E forse per Gennarino sarebbe cominciato un altro calvario, ospedali, carceri, medicine forti per stroncare un cavallo. Era giusto lasciarlo al suo destino. Dio avrebbe provveduto per lui. La carità degli uomini avrebbe provveduto a lui. I cani avrebbero pensato a lui. Mi volle abbracciare. Mi allontanai ancora perplesso, facendogli gesti di saluto. A un certo punto mi gridò: «Annibale, Insciallah». Risposi: «Annibale, Insciallah». «Ti voglio bene, Lanfranco». «Anch’io».
Il viaggio di ritorno fu tristissimo e sembrava non finire mai. Mi chiedevo come avrei giustificato l’assenza di Gennarino, cosa avrei detto, cosa avrei mai potuto dire. Invece, nessuno mi chiese nulla. Neanche don Guido. Anzi, lui fu l’unico a parlarmene un giorno, come leggesse nei miei pensieri, nei miei tormenti: «È andato al suo destino, stai tranquillo». Ma io, tranquillo proprio non ci sono rimasto.
Scendo alla stazione ogni tanto, di pomeriggio tardi, dopo il tramonto. Si vedono le Eolie, sul filo dell’orizzonte, e è uno spettacolo sempre nuovo. Sto lì a aspettare. Magari, mi dico, prima o poi ritorna. E se ritorna, è con il treno che torna. Quando ritorneranno i treni. Ci rimango un’ora o due. Ci sono i passeri e le allodole e le tortore. E c’è una gran pace. Quasi sempre sono da solo.
Negli ultimi tempi arrivano dei cani. I bastardi del paese, bestiacce inguardabili per la loro bruttezza e magrezza. Si accucciano vicino e non fanno nulla. Ho preso l’abitudine di portarmi dietro del pane tozzolo e ogni tanto gliene lancio un pezzo. Certe volte sembra non finire mai.
Se passate da queste parti, venite a trovarmi alla stazione. Un tempo c’erano le aiuole dei fiori, e ci dormiva il capostazione con tutta la famiglia. Ora è abbandonata e va cadendo a pezzi. Ho deciso che la prossima estate la ritinteggio.
Ci vorrà del tempo. E quando Gennarino torna – quando i treni torneranno a passare da qui –, la troverà splendente.
[da Storie di martiri, ruffiani e giocatori, a cura di Vicolo Cannery, ed. CARATTERIMOBILI]
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