| 
 
 
Anarchici piemontesi e gerarchi fascisti alla frontiera della
  Terra. Una rivoluzione in Patagonia. Sulle orme di Bruce Chatwin, cercando un
  barbiere suicida e un galiziano dai capelli rossi. Ma dove finisce il mondo
  si cerca un uomo e se ne trova un altro. Con una storia da raccontare. 
 
Cercavo un barbiere cileno, comunista e Testimone di Geova. E
  suicida. Ho trovato un piemontese anarchico. E con una storia da raccontare.
  Le strade della Patagonia si fanno beffe anche delle tracce di Bruce Chatwin:
  i sentieri di queste terre si confondono in labirinti insensati, non
  conducono da nessuna parte, ma, alla fine, regalano sorprese ai viaggiatori
  attenti. “Lei viene dall’Italia? Mio padre è italiano. Anzi lo era il nonno”,
  dice il ragazzo. Un vecchio appare sulla porta della casa, si ripara con un
  braccio dall’improvviso urlo del vento e dal sibilo di una pioggia velenosa:
  “Entrate. Parliamo dentro”. Puerto Natales è una città australe: le case di
  legno cigolano sotto l’urto delle tempeste, i cormorani stanno in posa su
  pontili distrutti, le navi dalla chiglia rossa  attraccano stremate dopo
  navigazioni fra la furia delle onde del Pacifico, i ragazzi con gli zaini
   si perdono verso le piramidi di granito della Cordillera del Cile, le
  montagne, coperte di neve anche in estate, si specchiano in una baia
  dall’acqua di cristallo. Nuvole violacee annunciano giornate gelide e
  tramonti da estasi. Una terra alla fine del mondo. Puerto Natales si affaccia
  sul fiordo dell’Ultima Speranza: bel nome, i primi bianchi che approdarono da
  questi parti avevano fantasie cupe e irridenti. Si divertirono a inventarsi,
  nelle notti del gelo australe, l’Isola della Desolazione, la Punta dell’Impiccato, la Maledizione di
  Drake, la Baia Inutile,
  il Golfo delle Pene. E l’Ultima Speranza: Eugenio Tortoroglio vi sbarcò nei
  primi anni di questo secolo. Era nato a Cossano Belbo, a due passi da Cuneo.
  Il vecchio che ho davanti, seduto su una poltrona con in mano le foto dei
  suoi parenti, si chiama Orlando e non parla una sola parola d’italiano. Eugenio
  era suo padre: era arrivato fin qua, negli anni della prima guerra mondiale,
  perché aveva saputo che gli inglesi assumevano operai per macellare la carne.
  “Era un comunista, forse un anarchico. Tutta la famiglia era comunista”, dice
  Orlando. Poi, con voce lieve e sorridente, sa di assestare il colpo: “Sua
  madre, mia nonna, si chiamava Felicita Balbo. Era la zia di Italo Balbo. Mio
  padre era il cugino di Balbo. Ed era anarchico. Stava con la gente di Antonio
  Soto”. Dimentico di botto il barbiere suicida che Chatwin aveva cercato a
  Puerto Natales, dimentico all’improvviso  le ragioni che mi avevano
  spinto a bussare alla porta di una delle vecchie famiglie della città. “Vada
  lì - aveva detto il cameriere dell’albergo - Forse loro sanno del barbiere e
  di quell’inglese che passò di qui troppo tempo fa”. Eugenio Tortoroglio tace,
  suo figlio sorride e cerca nel cassetto i certificati dell’anagrafe di
  Cossano Belbo. Il vecchio parla di nuovo: “Balbo sapeva di suo cugino
  anarchico. Gli scriveva, scriveva alla zia. Disse anche che potevano
  rientrare in Italia adesso che lui era importante. Per fortuna mia nonna e
  mio padre non ne hanno mai voluto sapere. Oggi non sarei vivo”. Le foto dei
  parenti di Orlando oscillano nelle sue mani. Puerto Natales è una scenografia
  perfetta per questo incontro: Balbo, il più stravagante dei gerarchi
  fascisti, governatore della Libia, e il cugino Eugenio, ribelle anarchico
  nelle solitudini della Patagonia. Riappare, in un pomeriggio di pioggia e
  vento, il volto di Antonio Soto, l’anarchico Soto, dai capelli rossi, gli
  occhi azzurri e la statura imponente, galiziano, nato a El Ferrol. Da
  ragazzo, prima di perdersi alla fine del mondo, avrà pur incontrato nelle
  strade della sua città, un compaesano dal futuro truce: si chiamava Francisco
  Franco. A 19 anni Soto fuggì dalla Spagna, si imbarcò per un folle viaggio di
  teatranti verso le frontiere della Terra. Il mondo è pieno di visionari. Nel
  1920 il prezzo della lana crollò e i peones del Cile morivano di fame nelle
  fattorie dei latifondisti dell’Argentina. Antonio Soto, attore e ribelle,
  affascinato da Proudhon e Bakunin, guidò la rivolta di questi schiavi fuggiti
  alla miseria del Cile. Chiedeva cose ragionevoli: una camera decente per i
  peones e un pacchetto di candele per avere luce nelle infinite notti
  australi. Ma urlò anche che la proprietà era un furto. I cileni furono
  ammaliati da Soto e la rivolta dilagò. Compagni dell’anarchico galiziano
  erano anche due italiani: un toscano, Alfredo Fonte, e un ‘artigiano
  piemontese’. Era lui il cugino di Italo Balbo? La ribellione terminò
  nell’inverno del 1921: il Decimo Cavalleria, spedito dal governo di Buenos
  Aires, circondò l’estancia Anita, sulle sponde del lago
  Argentino, un luogo meraviglioso, di ghiacciai e praterie. Un paesaggio
  troppo bello per morirvi senza storia. I cileni, asserragliati nell’ultimo
  ridotto di una rivoluzione fallita, credettero alle promesse del capitano
  Vinas Ibarra e si arresero: furono costretti a scavarsi la fossa e guardarono
  con occhi senza espressione il plotone di esecuzione. Scamparono alla morte
  solo quelli che vennero graziati dagli antichi padroni. Dice Chatwin: “Fu
  proprio come selezionare le pecore”. Soto si salvò: non aveva accettato la
  decisione di arrendersi e, con dodici compagni, si involò verso la Cordillera. Eugenio,
  il cugino anarchico, era con lui? Orlando, il figlio, è sicuro di sì. A
  Puerto Natales ricordano ancora Soto come il proprietario del Cinè
  Libertad. Poi se ne andò a Punta Arenas, aprì, dicono, un
  ristorante, un ristorante anarchico, naturalmente. Settanta anni dopo la
  ribellione, ad Antonio Soto, l’Argentina pentita dedica strade e monumenti.
  E, allo stesso tempo, scrive lapidi per i militari responsabili del massacro:
  ‘esempio di onore e disciplina’. L’estancia Anita è sempre nelle mani di
  poderose famiglie di proprietari terrieri. I peones sono ancora cileni
  analfabeti e poverissimi. Hanno guardato con occhi indifferenti a quel gruppo
  di anarchici che, due anni fa, ha costruito un muro poco fuori i recinti
  dell’estancia  per ricordare un’antica
  tragedia. Le sale della tosatura dove si erano rinchiusi i ribelli sono piene
  di balle di lana. Nessuno ha trovato i corpi dei cileni uccisi nel 1921, ma
  oggi sventolano bandiere nere di fronte all’ingresso della fattoria. Salici
  crescono attorno a tombe simulacro con insegne  inglesi, cilene,
  spagnole, slave, tedesche, argentine: è il mosaico di gente disperata che
  atterrò in Patagonia agli inizi di questo secolo. La placca in ottone dice:
  “Se la storia viene scritta da coloro che vincono, questo vuol dire che vi è
  un’altra storia”. Eugenio non se andò da Puerto Natales, rimase ancorato in
  questo villaggio all’imbocco del fiordo dell’Ultima Speranza. Anche quando
  chiusero i macelli degli inglesi e il fiordo non si arrossò più del sangue
  delle vacche. Il figlio Orlando nacque due anni dopo la fine della
   ribellione anarchica. Ogni tanto in queste terre irreali arrivavano le
  lettere di quel cugino in camicia nera che comandava l’Italia. Eugenio le
  rinchiudeva in un cassetto e le dimenticava. Solo cinque anni fa al nipote
  venne voglia di curiosare, tramite zelanti consolati, nei fogli degli archivi
  comunali di un paese lontanissimo: Felicita Balbo non ha né data di nascita,
  né di morte. Faceva la contadina, scomparve in Patagonia. Per il comune,
  Eugenio è ‘emigrato all’estero in data sconosciuta’. In quegli anni si
  partiva senza lasciare tracce, senza rimpianti, né ricordi. Come adesso fanno
  i senegalesi o i marocchini. Orlando mi accompagna davanti al negozio del
  barbiere che si suicidò proprio il giorno in cui Bruce Chatwin, oltre
  vent’anni fa, passò da queste parti a cercarlo. Travi corrose dal tempo
  sprangano una porta che sembra chiusa da un secolo. Dice Orlando: “Qui abita
  ancora la figlia di Josè Mancillas, il barbiere, ma non apre a nessuno”. Chatwin
   aveva cambiato il nome del barbiere. Nessuno, a Puerto Natales, capì
  perché si uccise: Orlando lo ricorda come un uomo allegro, che indossava
  bretelle e cercava di nascondere la pancia, ogni giorno andava in bicicletta,
  amava il tango e le donne. Anche lui era nella rivolta, amico dei capi, amico
  di Soto, amico di Eugenio, l’italiano. Quella lontana ribellione ha
  ossessionato per tutta la vita gli uomini che vi presero parte e che si
  salvarono. Orlando non trova più le lettere di Italo Balbo, mi regala il
  certificato del comune di Cossano Belbo: “Vada da altri vecchi, le
  racconteranno altre storie”. Il paesaggio è immenso e le verità non esistono
  in Patagonia.            
 
 Fonte: andreasemplici.it | 
Nessun commento:
Posta un commento