maria, angelina e rosalia di girolamo

lunedì 23 aprile 2012

golfo de penas - francisco coloane


foto: Acque del Golfo de Penas


Tra un’onda e l’altra, la nostra nave si inclinava come un animale ferito in cerca di una via di salvezza, attraverso quell’orizzonte sbarrato da creste agitate e scure.
“Tieniti forte, vecchia mia!” disse un marinaio, stringendo i denti e contraendo i muscoli del volto, come se avvertisse una fitta dolorosa alle viscere. La nave, quasi lo avesse sentito, scricchiolò compiendo una virata di quarantacinque gradi e risalì la cresta di un’altra onda, praticamente adagiata su un fianco, ma ormai in salvo dal salto mortale che avrebbe rischiato di farla colare a picco.
Lo sbarramento d’acqua era totale. Sopra, anche il cielo sembrava un’onda sospesa sulle nostre teste, dal cui ventre cadeva violenta una pioggia fitta e sfibrante.
A un tratto, emergendo dalla tormenta, apparve sulla cresta dell’onda un’ombra più densa; un’altra onda la nascose alla vista, e una terza la riportò in alto mostrandoci un’immagine insolita per quei mari aperti: una barca con cinque uomini.
Strano incontro, perché in quel golfo si avventurano solo navi di grosso tonnellaggio. La nostra, con le sue dieci miglia di andatura, stava lottando da oltre ventiquattro ore per attraversarlo da sud a nord, e un guscio di noce come quella minuscola barca non poteva sperare di farlo in meno di una settimana fino al Faro San Pedro, i primi picchi rocciosi di terraferma che si incontrano a sud del temuto golfo.
Nel fragore della tempesta, la campana della sala macchine risuonò come un cuore che rimbombava sulle pareti di metallo, e la nave diminuì l’andatura.
Era una barca in legno di cipresso, dallo scafo largo, e il fasciame di grosso spessore mostrava la polpa rossiccia, tanto era stato flagellato dal mare e dalla pioggia. I quattro vogatori remavano vigorosamente da ritti, un piede piantato sul banco e l’altro sul pagliolo del fondo, e tenevano lo sguardo fisso sul mare, soprattutto sull’onda in caduta, quando la massa d’acqua scivolava vertiginosamente verso l’abisso. Anche l’uomo che governava la barca, aggrappato alla barra del timone, stava in piedi, e mentre con una mano aiutava il rematore di poppa, con la spinta del corpo sembrava imprimere forza a tutti, che come un sol uomo seguivano il ritmo del suo impulso. Di tanto in tanto una cresta sfrangiata nascondeva la barca, e allora sembrava stessero vogando sospesi sul mare per una sorta di prodigio.
Quando ci furono di fianco, venne lanciata una cima legata a uno scandaglio, che il rematore di prua assicurò con un nodo scorsoio a un anello fissato sul banco. La vicinanza diventava sempre più pericolosa. Le onde innalzavano e abbassavano scompostamente la nave e la barca in modo tale che, in qualsiasi momento, lo scafo poteva cozzare contro la fiancata di ferro della nave finendo in pezzi. Una scaletta di corda fu calata dal bordo e, quando la cresta di un’onda alzò la barca fino ai traversi del ponte, il timoniere spiccò un salto e si afferrò alla scaletta, arrampicandosi con l’agilità di un gatto. Mise piede in coperta e come un fulmine salì le scale fino al ponte di comando.
Lassù, lui e il capitano si chiusero in cabina. Restammo in attesa. I rematori si tenevano a una prudente distanza con il loro guscio di noce; la nave affondava la prua tra le onde e la rialzava come una testa stremata, scrollandosi la spuma di dosso. Il nostromo e i marinai erano pronti a effettuare la manovra di issaggio della barca a bordo, non appena il capitano avesse dato l’ordine.
I minuti trascorrevano lenti. Perché ci mettevano tanto a decidere di salvare una barca in mezzo all’oceano?
La tensione dell’attesa diminuì quando vedemmo uscire il barcaiolo dalla cabina. Fece uno strano cenno con la mano e ridiscese le scale con balzi da capriolo. Ma l’ordine di issare i naufraghi non venne dato. Il nostro sconcerto, a quel punto, aumentò.
Passandomi accanto, mi rivolse uno sguardo freddo ed energico. Volevo dire qualcosa, ma il suo sguardo mi trattenne dal farlo. L’uomo era inzuppato d’acqua; indossava pantaloni di lana grezza e un maglione pesante, la testa scoperta e i piedi nudi; il volto sembrava slavato come il legno della sua barca e tutto in lui emanava un’agilità invidiabile, con la quale pareva difendersi dal flagello implacabile delle intemperie.
Riattraversò la nave come un fulmine, scavalcò il bordo, si aggrappò alla scaletta e, approfittando di un rollio, con un balzo si ritrovò nuovamente alla barra del suo timone.
“Mollaaa!” gridò, e il marinaio a prua sciolse la cima, lanciandola in aria con un gesto disinvolto e sprezzante. I rematori ripresero a vogare con notevole energia, e la barca scomparve dietro a una montagna d’acqua. Un’altra la sollevò sulla cresta, e quindi svanì così com’era apparsa, un’ombra più densa inghiottita dalla tormenta.
Sulla nave l’unico ordine che risuonò fu la campana della sala macchine, che aumentò l’andatura. I marinai erano stupefatti, in attesa di qualcosa, a mani vuote. Il nostromo recuperava la cima e lo scandaglio lentamente, svogliato, quasi stesse raccogliendo tutto il disprezzo del mare.
“Perché non li abbiamo presi a bordo?” chiesi più tardi al capitano.
“Il padrone della barca non ha voluto che li accogliessimo in qualità di naufraghi”, mi rispose.
“E perché?”
“Siamo cacciatori di foche dell’isola di Lemuy e andiamo nei canali maggellanici in cerca di pelli! Non siamo naufraghi!” mi ha detto.
“Non sapete che le autorità marittime vietano di uscire oltre un certo limite con una piccola imbarcazione?”
“Non è una piccola imbarcazione, è una barca a cinque vogatori e tutti gli anni in questo periodo attraversiamo il golfo. L’unica cosa che le chiediamo è di portarci un po’ più vicino alla costa e lasciarci lì, nient’altro!”
“Se vi prendo a bordo devo consegnarvi alle autorità della Capitaneria nel porto della vostra giurisdizione!”
“No, là ci registrerebbero come naufraghi…E questo…neanche morti! Non siamo naufraghi, capitano!”
“Allora niente da fare.”
“Va bene, capitano!”
E con un gesto della mano, il padrone della barca aveva considerato chiusa la conversazione.
Non riuscì a trattenermi dal dire:
“Piuttosto che lasciarli a combattere con la morte in mezzo a quest’inferno d’acqua, poteva dar loro una possibilità, portandoli più vicino alla costa! In quel punto, chi l’avrebbe mai costretto ad applicare il regolamento?”
“Quel tipo era cocciuto!” ribattè il capitano; e guardandomi di sbieco aggiunse:”Se mi avesse pregato solo un po’, ce l’avrei portato!”
Fuori, la tormenta imperversava sempre più forte sul Golfo de Penas.

Tratto da: “i balenieri di Quintay”  ed: guanda 2000

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