foto: Acque del Golfo de Penas
Tra un’onda e l’altra, la nostra nave si
inclinava come un animale ferito in cerca di una via di salvezza, attraverso
quell’orizzonte sbarrato da creste agitate e scure.
“Tieniti forte, vecchia mia!” disse un
marinaio, stringendo i denti e contraendo i muscoli del volto, come se
avvertisse una fitta dolorosa alle viscere. La nave, quasi lo avesse sentito,
scricchiolò compiendo una virata di quarantacinque gradi e risalì la cresta di
un’altra onda, praticamente adagiata su un fianco, ma ormai in salvo dal salto
mortale che avrebbe rischiato di farla colare a picco.
Lo sbarramento d’acqua era totale. Sopra,
anche il cielo sembrava un’onda sospesa sulle nostre teste, dal cui ventre
cadeva violenta una pioggia fitta e sfibrante.
A un tratto, emergendo dalla tormenta,
apparve sulla cresta dell’onda un’ombra più densa; un’altra onda la nascose
alla vista, e una terza la riportò in alto mostrandoci un’immagine insolita per
quei mari aperti: una barca con cinque uomini.
Strano incontro, perché in quel golfo si
avventurano solo navi di grosso tonnellaggio. La nostra, con le sue dieci
miglia di andatura, stava lottando da oltre ventiquattro ore per attraversarlo
da sud a nord, e un guscio di noce come quella minuscola barca non poteva
sperare di farlo in meno di una settimana fino al Faro San Pedro, i primi
picchi rocciosi di terraferma che si incontrano a sud del temuto golfo.
Nel fragore della tempesta, la campana della
sala macchine risuonò come un cuore che rimbombava sulle pareti di metallo, e
la nave diminuì l’andatura.
Era una barca in legno di cipresso, dallo
scafo largo, e il fasciame di grosso spessore mostrava la polpa rossiccia,
tanto era stato flagellato dal mare e dalla pioggia. I quattro vogatori
remavano vigorosamente da ritti, un piede piantato sul banco e l’altro sul
pagliolo del fondo, e tenevano lo sguardo fisso sul mare, soprattutto sull’onda
in caduta, quando la massa d’acqua scivolava vertiginosamente verso l’abisso. Anche
l’uomo che governava la barca, aggrappato alla barra del timone, stava in
piedi, e mentre con una mano aiutava il rematore di poppa, con la spinta del
corpo sembrava imprimere forza a tutti, che come un sol uomo seguivano il ritmo
del suo impulso. Di tanto in tanto una cresta sfrangiata nascondeva la barca, e
allora sembrava stessero vogando sospesi sul mare per una sorta di prodigio.
Quando ci furono di fianco, venne lanciata
una cima legata a uno scandaglio, che il rematore di prua assicurò con un nodo
scorsoio a un anello fissato sul banco. La vicinanza diventava sempre più
pericolosa. Le onde innalzavano e abbassavano scompostamente la nave e la barca
in modo tale che, in qualsiasi momento, lo scafo poteva cozzare contro la
fiancata di ferro della nave finendo in pezzi. Una scaletta di corda fu calata
dal bordo e, quando la cresta di un’onda alzò la barca fino ai traversi del
ponte, il timoniere spiccò un salto e si afferrò alla scaletta, arrampicandosi
con l’agilità di un gatto. Mise piede in coperta e come un fulmine salì le
scale fino al ponte di comando.
Lassù, lui e il capitano si chiusero in
cabina. Restammo in attesa. I rematori si tenevano a una prudente distanza con
il loro guscio di noce; la nave affondava la prua tra le onde e la rialzava
come una testa stremata, scrollandosi la spuma di dosso. Il nostromo e i
marinai erano pronti a effettuare la manovra di issaggio della barca a bordo,
non appena il capitano avesse dato l’ordine.
I minuti trascorrevano lenti. Perché ci
mettevano tanto a decidere di salvare una barca in mezzo all’oceano?
La tensione dell’attesa diminuì quando
vedemmo uscire il barcaiolo dalla cabina. Fece uno strano cenno con la mano e
ridiscese le scale con balzi da capriolo. Ma l’ordine di issare i naufraghi non
venne dato. Il nostro sconcerto, a quel punto, aumentò.
Passandomi accanto, mi rivolse uno sguardo
freddo ed energico. Volevo dire qualcosa, ma il suo sguardo mi trattenne dal
farlo. L’uomo era inzuppato d’acqua; indossava pantaloni di lana grezza e un
maglione pesante, la testa scoperta e i piedi nudi; il volto sembrava slavato
come il legno della sua barca e tutto in lui emanava un’agilità invidiabile,
con la quale pareva difendersi dal flagello implacabile delle intemperie.
Riattraversò la nave come un fulmine,
scavalcò il bordo, si aggrappò alla scaletta e, approfittando di un rollio, con
un balzo si ritrovò nuovamente alla barra del suo timone.
“Mollaaa!” gridò, e il marinaio a prua
sciolse la cima, lanciandola in aria con un gesto disinvolto e sprezzante. I
rematori ripresero a vogare con notevole energia, e la barca scomparve dietro a
una montagna d’acqua. Un’altra la sollevò sulla cresta, e quindi svanì così com’era
apparsa, un’ombra più densa inghiottita dalla tormenta.
Sulla nave l’unico ordine che risuonò fu la
campana della sala macchine, che aumentò l’andatura. I marinai erano
stupefatti, in attesa di qualcosa, a mani vuote. Il nostromo recuperava la cima
e lo scandaglio lentamente, svogliato, quasi stesse raccogliendo tutto il
disprezzo del mare.
“Perché non li abbiamo presi a bordo?” chiesi
più tardi al capitano.
“Il padrone della barca non ha voluto che li
accogliessimo in qualità di naufraghi”, mi rispose.
“E perché?”
“Siamo cacciatori di foche dell’isola di
Lemuy e andiamo nei canali maggellanici in cerca di pelli! Non siamo naufraghi!”
mi ha detto.
“Non sapete che le autorità marittime
vietano di uscire oltre un certo limite con una piccola imbarcazione?”
“Non è una piccola imbarcazione, è una barca
a cinque vogatori e tutti gli anni in questo periodo attraversiamo il golfo. L’unica
cosa che le chiediamo è di portarci un po’ più vicino alla costa e lasciarci
lì, nient’altro!”
“Se vi prendo a bordo devo consegnarvi alle
autorità della Capitaneria nel porto della vostra giurisdizione!”
“No, là ci registrerebbero come naufraghi…E
questo…neanche morti! Non siamo naufraghi, capitano!”
“Allora niente da fare.”
“Va bene, capitano!”
E con un gesto della mano, il padrone della
barca aveva considerato chiusa la conversazione.
Non riuscì a trattenermi dal dire:
“Piuttosto che lasciarli a combattere con la
morte in mezzo a quest’inferno d’acqua, poteva dar loro una possibilità,
portandoli più vicino alla costa! In quel punto, chi l’avrebbe mai costretto ad
applicare il regolamento?”
“Quel tipo era cocciuto!” ribattè il
capitano; e guardandomi di sbieco aggiunse:”Se mi avesse pregato solo un po’,
ce l’avrei portato!”
Fuori, la tormenta imperversava sempre più
forte sul Golfo de Penas.
Tratto da: “i balenieri di Quintay” ed: guanda 2000
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